Che consolazione, questi diari di Indro Montanelli che la Rizzoli manderà il libreria mercoledì con il titolo «I conti con me stesso». Una consolazione perché, dopo tanto parlare e scrivere di Montanelli nell’unica prospettiva della rottura con Berlusconi, ritroviamo in quelle pagine il Montanelli vero; il Montanelli che aveva in uggia la sinistra di piazza e di convegno, e che fondò il Giornale proprio per opporsi a una caligine «politicamente corretta» nella quale nulla era chiaro tranne l’antifascismo ruggente professato da una folla di ex fascisti.
I diari coprono periodi relativamente brevi della lunga esistenza e della lunga presenza di Indro: dal settembre 1957 al gennaio 1958; da settembre a dicembre del 1966; dal maggio 1969 all’aprile 1972; dal maggio 1977 al maggio 1978. Ma bastano e avanzano, questi brandelli memorialistici, per restituirci verità e anche crudezze su cui è stata versata opportunisticamente tanta, troppa melassa. Perfino più autentici e impietosi, questi ricordi, di ciò che l’impertinente Indro scriveva o diceva in pubblico. Anche chi, come lui, era allergico all’incenso dei clan, doveva a volte arrendersi. Straordinaria, in proposito, la confessione sulla «Battaglia di Algeri» di Gillo Pontecorvo. A Montanelli il film non era piaciuto, «un grande documentario e non merita nulla». Ma poi, chiamato a pronunciarsi in tv, lo lodò, «è un bellissimo film» successivamente ammettendo con amarezza: «Anch’io riservo il mio coraggio a questo diario».
Dei diari ho letto solo i passaggi che il Corriere ha pubblicato in anteprima, insieme a uno stralcio della prefazione di Sergio Romano: come sempre acuta, ma a mio avviso eccessivamente cauta nel cogliere il significato profondo dei diari: che sta, lo ripeto, nel ricordare ai troppi immemori chi fosse e come la pensasse Montanelli.
La sua coerenza e la sua passione politica non erano mai settarie. Lo dimostra l’omaggio caloroso tributato a Leo Valiani. Nemmeno si lasciava stordire dalle Alte Cariche, e a Saragat riserva un trattamento perfino crudele («non vede che se stesso, non ascolta nessuno, si parla addosso»). Pizzica Silvio Berlusconi in un momento nel quale pur lo considerava l’editore ideale. Annota malizioso che durante la cerimonia internazionale del 1977 Berlusconi «riempie il suo taccuino di indirizzi, quelli di tutte le personalità che ha incontrato. È il vero climber che profitta di tutto e non butta via nulla». E su Giangiacomo Feltrinelli, immolatosi nel tentativo di sabotare un traliccio: «L’ho conosciuto bambino, mi è un po’ cresciuto sulle ginocchia. Non ho mai capito come abbia potuto diventare un editore importante». Frecciate sferzanti e divertenti d’un genio capace di mettere in caricatura tutti, compreso se stesso.
Ma il suo fuoco più micidiale Montanelli lo usa contro un mondo letterario e salottiero che già gli ripugnava quando era al Corriere, e che lo ricambiò con un odio aggressivo quando ebbe fondato il Giornale. Apprende che in due salotti milanesi - di Inge Feltrinelli e di Gae Aulenti - si brindò per l’attentato che aveva subito, solo deplorando che se la fosse cavata. E sottolinea che l’averlo appreso gli ha fatto un grandissimo piacere. È sprezzante nei confronti di Moravia «sempre pronto a battersi per la libertà purché sia d’accordo il piccì», bacchetta sia Guido Piovene, che pure avrebbe avuto al suo fianco nell’avventura del Giornale,
sia Giorgio Bocca «eternamente impegnato, intransigente, accigliato, e costretto a una perpetua polemica con tutto ciò che io rappresento».
Proprio un Montanelli d’annata, questo che ci troviamo di fronte in «I conti con se stesso». Pronto a scudisciare le viltà italiane, degli intellettuali della borghesia il Montanelli d’allora: per un’infinità di borghesi e di intellettuali intoccabile, colpito da una fatwa della sinistra. Dopo l’assassinio di Casalegno «la Stampa riprende tutti gli articoli di solidarietà apparsi sugli altri giornali. Ma omette il mio, che era forse il più caldo: la solidarietà nostra li imbarazza». Sì, per Montanelli tante facce feroci giornalistiche e politiche. Indro, gambizzato dai br, ha scritto il 4 giugno 1977: «Mi dicono che Cervi, che lo ha commentato l’altro ieri sera da Montecarlo, ha commosso tutti con la propria commozione». Effettivamente provai commozione e indignazione. Ritenevo indegni gli interventi accorati di chi aveva indicato in Indro un reazionario pericoloso, o un fascista golpista, così additandolo al mirino delle P38.
Dopo la lite con Berlusconi quegli stessi che non avevano perso occasione per aggredire Montanelli, gli si strusciarono accanto, premurosi e addirittura servili. Una volta, a una premiazione del premio «È giornalismo», dissi a Indro che lo spettacolo di quegli sdilinquimenti mi faceva rivoltare lo stomaco. «Io fingo di aver dimenticato tutto» disse Indro tranciando l’aria con le sue mani ossute.
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