Ernesto Guevara della Serna, presente! Sulle prime potrebbe sembrare una scena tratta dal film “Fascisti su Marte”, del ritocco di un file audio o semplicemente di uno scherzo.
Che infervorati no global portino, tatuati sul braccio, effigi di Ernesto Che Guevara non stupisce nessuno. Che alle manifestazioni della CGIL sfilino bandiere rosse con sopra riprodotto il volto del guerrigliero argentino sembra lapalissiano. Ma il mito del rivoluzionario argentino riecheggia su lidi inattesi. Molti risponderebbero che è ovvio, basta guardarsi in giro. Il Che è diventato uno strumento di marketing e di commercio: magliette, spille, collezionabili da edicola, libri, DVD...
Casi per nienteisolati
Insospettabile forse che nell’altra metà del cielo, quello nero, molti cuori abbiano palpitato e ancora palpitino per il guerrigliero argentino. Tra i neofascisti, i nazionalrivoluzionari e i fascisti rossi la figura di questo compagno tanto amato a sinistra, suscita entusiasmi inattesi. E non dell’ultima ora, adesso che il gusto per il postfascismo o per i ripensamenti diventano moneta corrente.
Nell’ammirazione neofascista del Che si canta il gusto dell’avventura, le scelte dettate dallo stile piuttosto che dall’ideologia, l’atto gratuito, insomma il “Me ne frego”. Di questo amore folle racconta l’ultima fatica di Mario La Ferla in L’altro Che. Ernesto Guevara mito e simbolo della destra militante in libreria in questi giorni (Stampa alternativa, pp. 214, euro 14).
Non è un’infatuazione peregrina dei nazionalrivoluzionari nostrani. All’inizio fu Juan Domingo Perón, il presidente dell’Argentina, che certo non può dirsi progressista. Negli anni dell’esilio in Spagna dopo essere stato rovesciato da una giunta militare appoggiata da Washington, non ci pensò due volte ad accogliere, con il beneplacito di Francisco Franco, il Che al suo arrivo in terra iberica.
E fu lo stesso presidente argentino, sembra, a mettere in contatto il Che con Boumedienne, uno dei capi del Fronte di liberazione e poi presidente dell’Algeria. Non è un caso unico, isolato.
Anche Jean Thiriart, fondatore di Jeune Europe, uno dei primi movimenti europeisti catalogati a destra, non ha esitato negli anni Sessanta a innalzare la bandiera del guerrigliero argentino. Se il programma del politico belga ruotava attorno al motto «né con Washington né con Mosca», chi meglio di Guevara poteva rappresentarlo: detestato dai sovietici e odiato dagli americani perché voleva un’America Latina libera era l’icona perfetta.
E in Italia? I primi a cantare le vicende del Che non furono i contestatori di sinistra. Accade al Bagaglino, il celebre cabaret romano, fucina della satira nostrana di destra che coltivò parecchi talenti, da Oreste Lionello a Pippo Franco. Tra i suoi fondatori c’era anche Pierfrancesco Pingitore. Una sera, quando il gruppo si riunisce per discutere il programma dei giorni successivi, giunge all’improvviso una telefonata che lascia tutti di stucco. È arrivata tra gli artisti romani la notizia della morte del Che. Non passa qualche ora che alla mente di Pingitore s’affaccia un’idea: «Dobbiamo scrivere una ballata che ricordi il Che».
Nell’arco di qualche giorno parole e musica (questa composta da Dimitri Gribanowski) sono pronte e la voce non manca. Sarà Gabriella Ferri a incidere un 45 giri con “Addio Che”, che finisce con «a piangere per te / verremo di nascosto / le notti senza luna».
Il mercenariodi Gabriella Ferri
Un disco che sul lato B proporrà una canzone, composta questa volta da Pino Caruso, che diventerà poi una hit presso la musica underground della destra irregolare: “Il mercenario di Lucera”, la storia di un soldato di ventura morto in Congo.
Vite diverse certo, contenuti ideologici differenti ma entrambe esistenze votate all’avventura. È questa la ragione del fascino del Che. Nessuno si nascondeva la spietatezza, l’efferatezza di cui è stato capace, ma quella era una generazione che veniva dalla guerra e di uomini spietati ed efferati ne aveva conosciuti... Nel mondo ideologizzato della sinistra, dove è chiaro chi siano i buoni e chi i cattivi, questa passione non può che suscitare ribrezzo. Impensabile che un rivoluzionario dedito alle sorti progressive dell’umanità sia avvicinato a un mercenario partito per l’Africa.
Il fascinodella causa persa
Ma per i cuori neri, entrambi stanno dalla parte dell’avventura e rappresentano l’atto di irrisione nei confronti della fine, esaltato nel motto dei falangisti spagnoli “Viva la muerte!”: il Che lascia un comodo posto di ministro, in cui certo non brillava, per combattere di nuovo, allo stesso modo in cui il soldato cantato da Pino Caruso parte per l’Africa nera abbandonando la sua Puglia.
L’intraprendenza della destra italiana non si ferma. Il fascino dell’avventuriero non si estingue... In fondo non si tratta forse di un altro modo di dedicarsi alle cause perse? Adriano Bolzoni, reduce della Repubblica Sociale Italiana, autore di sceneggiature di numerosi film pensa di preparare un brogliaccio per poi girare un film dedicato a Ernesto Guevara. Non ci mette molto e una volta pronto contatta Pier Paolo Pasolini che gli consiglia di rivolgersi a Paolo Huesch, un regista di lungo corso. A lui si deve oltre alla riduzione per lo schermo di Una vita violenta di Pasolini, la regia di “Il comandante” con Totò oltre che ai primi tentativi di cinefantascienza e all’horror d’esordio del cinema italiano “Lycanthropus”.
Le riprese della pellicola sul Che avvengono in Sardegna e raccontano gli ultimi giorni della sua vita in Bolivia, quelli che precedono la cattura. Non sarà un successo al botteghino ma di certo è la testimonianza che ben prima della sinistra è stata la destra a interessarsi delle sorti del Che.
Hasta la victoriasiempre
Più vicino a noi, nel 1995, Franco Cardini conclude un ricordo del Che, paragonato a Don Chisciotte, con il celebre “Hasta siempre, Comandante!”. Gli farà eco Gabriele Adinolfi, fondatore di Terza posizione, con il testo “Lotta e vittoria, Comandante! Perché da fascista lo onoro”, evocando il libro di Julius Evola “La dottrina aria di lotta e vittoria”. Anche Giano Accame su “Il Borghese” accostava Ernesto Guevara a Evola, Guénon e von Salomon.
E potremmo arrivare da ultimo, notizia del dicembre 2008, perfino a Diego Armando Maradona, che pur recando al braccio il tatuaggio del Che, non nasconde di portare in tasca la tessera del Partito giustizialista fondato da Perón. «Che problema c’è - ribadisce el pibe de oro - entrambi erano uniti dall’odio per l’America».
Una sbandata, quella di certa destra, per il Che dunque «che è stata occasionale - conclude La Ferla - ma non di certo casuale».
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