lunedì 12 aprile 2010

Ma questo Paese si può pacificare?

Agli italiani le riforme istituzionali fanno venire sonno o irritazione ai testicoli per tre ragioni chiarissime: perché riguardano il Palazzo e non il Paese che avverte ben altre priorità; perché sfilano i soliti modellini stranieri che appassionano solo i collezionisti di ingegneria istituzionale e i loro indossatori politici; perché si dicono ma poi non si fanno, sono solo gravidanze isteriche.
Ma potrebbero diventare più interessanti se fossero tradotte in vita reale. Ovvero: se garantissero ai cittadini governi di legislatura con pieni poteri e piene maggioranze, senza più alibi di comodo e inconcludenti mediazioni; se fossero inserite in una riforma della politica che dimezzasse il numero dei politici e i costi, magari con un sistema elettorale che restituisse ai cittadini la piena facoltà di scegliersi i propri rappresentanti; e se fossero fatte sul serio, realizzate e vigenti già dalle prossime elezioni politiche. Traduco ancora più chiaramente: se tu sai che con la riforma avrai governi che durano cinque anni e che hanno maggioranze solide, del 60 per cento; se tu sai che i parlamentari passano da mille a cinquecento, che si dimezzano gli enti locali, le authority e si sfoltiscono le assemblee; se tu sai che questa è veramente la volta buona perché ci sono tempi (tre anni di calma) e voti (in caso di mancato accordo c’è una larga maggioranza), allora il discorso cambia. Così la riforma istituzionale servirebbe per governare meglio e realizzare le riforme che interessano davvero la gente, togliendo alibi a chi governa e ricatti a chi non vuol far governare.
Ma l’utilità di una riforma istituzionale sarebbe anche un’altra: creerebbe una tregua sostanziale fra i leader. Perché è inutile menarsela: dietro ogni progetto di riforma non c’è il bene del Paese ma c’è la carriera dei leader, la loro collocazione e il loro tornaconto. Non nascondiamocelo. Allora lasciamo da parte i discorsetti astratti del tipo sistema francese o giapponese e vediamo il caso italiano: qui il problema è dare una prospettiva ai leader, alle eventuali new entry in lista d’attesa e sbloccare la situazione: dico Fini e Casini, Tremonti e i leghisti, Bersani e Di Pietro, Draghi e Montezemolo, solo per fare qualche esempio di outsider. E dico, prima di tutti, Berlusconi. Non per tifoseria ma perché il sistema bipolare regge sull’amore-odio per Berlusconi e dunque se non si concerta una soluzione per lui e con lui, che detiene il pacchetto di maggiore consenso reale, non si va da nessuna parte.
Hanno cercato di farlo deragliare con le inchieste, con i pentiti del Pdl, con il voto. Ma non ci sono riusciti. Allora le soluzioni sono due: una, drastica e criminale, è quella di eliminarlo fisicamente, lanciandogli non la statuina del Duomo ma l’originale addosso, così magari si prendono due piccioni con una fava, colpendo pure la Chiesa. L’altra, più ragionevole e vantaggiosa, è accordarsi con lui. E quale può essere la soluzione? Negoziare con lui per avere campo libero alle prossime elezioni politiche senza di lui che catalizza i consensi e i dissensi. E come si può fare? Facendolo governare in pace per tre anni, dandogli cioè la piena possibilità di realizzare le riforme, comprese le riforme istituzionali. E poi mandandolo al Quirinale. Ma se ci va dopo una riforma all’americana, diventa l’asso pigliatutto, perché da capo dello Stato sarebbe pure capo del governo. E gli altri non ci stanno, è comprensibile. Allora, approfittando dell’età sua e della necessitàsuper partes, e così si libera la competizione su chi governa in Italia.


Senza Berlusconi in lizza, tutti escono allo scoperto. E si dà vita a una democrazia davvero bilanciata, in cui la forte personalità di Berlusconi e il suo largo consenso popolare sarebbero un bel contrappeso a un premier eletto dal popolo che guidi un governo di legislatura con una maggioranza solida e ampia. Così cesserebbe la guerra a Berlusconi, che avrebbe un ruolo di garante, ma sarebbe anche a sua volta garantito. E gli altri finalmente si conterebbero sul campo, senza addurre l’alibi della presenza di Berlusconi. E nessuno potrebbe parlare di svolta autoritaria, presidenzialismo come anticamera del ducismo.
A me sembra la soluzione più ragionevole: e mi pare cretino continuare a dire che il premierato non c’è in altri Paesi europei, o in Israele è andato male. Non c’è un grande Paese europeo che abbia un sistema uguale all’altro: forme di premierato ci sono in Inghilterra e in Germania (cancellierato), e noi avremmo la nostra forma originale, più adatta alla realtà dell’Italia e al nostro quadro politico.
L’unica riforma che ha funzionato in Italia è stata l’elezione diretta del sindaco: dunque estendiamola al premier. Ma poi, al di là delle ingegnerie istituzionali, la ragione per fare la riforma è garantire governi stabili e in grado di decidere e poi di rispondere direttamente ai cittadini nel quadro di una democrazia responsabile. Allora perché cambiare la Costituzione con il presidenzialismo quando è possibile rendere esplicito il premierato implicito già vigente con l’indicazione del premier accanto alle liste? Non capisco perché Fini e gli altri non puntino su questa ipotesi. Gli unici a rimetterci sarebbero i convinti berlusconiani che dovrebbero accettare l’idea di un cambio di guardia al governo fra tre anni.So l’obiezione e la condivido: se Berlusconi è l’unico che oggi può governare il Paese, perché dovremmo privarcene fra tre anni e mandarlo al Quirinale? Perché un Paese non può confidare solo in un uomo in eterno, perché si deve pur scommettere fra tre anni sul futuro, perché Berlusconi allora avrà l’età giusta per il Quirinale più che per Palazzo Chigi. E sarebbe meglio per lui: se fa questi tre anni a cavallo tra buone riforme e veri risultati, e se poi assume la massima carica dello Stato, esce alla grande, tra la storia e il mito; e può spegnere in sette anni super partes quel livore che lo assedia da vent’anni. Pensateci, è l’ipotesi più bipartisan che io conosca, contiene meno fregature per tutti e per ciascuno. E fa più bene all’Italia.

articolo di Marcello Veneziani- Il giornale

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