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mercoledì 9 novembre 2016

TRUMP PRESIDENTE DEGLI USA: considerazioni

MANUELA VALLETTI
La lezione degli americani e la stoltezza dell'élite rappresentata dalla Clinton 
Il popolo americano ha deciso di cambiare, ha votato e ha voltato pagina. Ha detto basta con il mondo della finanza, con le lobby che dettano le sorti del mondo e regalano alla gente comune solo miseria, basta con i tatticismi che portano alle guerre: il popolo chiede lavoro, certezze di una vita dignitosa e serenità. Obama è stato il peggior presidente degli USA, la Clinton sarebbe stata peggio di lui. Trump ha interpretato i sentimenti del popolo americano e ha vinto. La cosa incredibile non è la sua vittoria, ma il fatto che l'élite fino ad ora al potere non abbia compreso il malcontento del popolo e continuasse a proporre alla nausea i suoi programmi per il futuro. In un paese libero, se ci si allontana dal sentire del popolo si perde. Per tornare a casa nostra io spero che la lezione sia servita sia ai cittadini che ai politici, spero che anche gli italiani comprendano che si può cambiare, che si deve cambiare e questo dal prossimo appuntamento elettorale




TONI CAPUOZZO
Quante facce a lutto, tra gli osservatori. Non che si debba far festa, ma le presidenziali americane sono state una bella ventata di democrazia. La protesta, il farsi beffe dei sondaggi, dei media politicamente schierati: è un salto nel vuoto ? Intanto è il rifiuto della continuità e della correttezza politica ad ogni costo. In un paese dove contraddittoriamente o no qua e là si vota anche per la reintroduzione della pena di morte, per lo spinello libero, per la carbon tax. Balleranno le Borse, e a noi che mondo ci aspetta ? Non lo sappiamo, ma forse parte la retromarcia nella nuova guerra fredda con Mosca (che fesseria la compagnia di militari italiani destinati alla Lettonia...), la Nato che ha di fatto prodotto la crisi ucraina dovrà ridimensionarsi, i Fratelli musulmani perdono un santo in paradiso, la Siria forse potrà uscire da una situazione bloccata, l'Europa dovrà guardarsi allo specchio (come con la Brexit, emerge che ai popoli i muri non dispiacciono. Brutti sporchi e cattivi, dicono i maestrini sorpresi: è la democrazia, bellezze), e le urne europee, dalla Francia all'Italia, risentiranno delle sirene americane. Dobbiamo solo stare a vedere, con curiosità, senza speranze e senza paure. E, almeno per me, con un solo dispiacere: è stato sconfessato Bruce Springsteen. Come dice il grande sconfitto Obama, presidente Nobel per la pace e signore dei droni, domani è un altro giorno. Lo diceva anche Rossella O'Hara, alla fine di Via col vento.

domenica 26 ottobre 2014

Reagan oggi salverebbe l'Italia

IL GRANDE PRESIDENTE AMERICANO, ARTEFICE DI SCELTE ECONOMICHE DI GRANDE VALORE PER IL SUO PAESE, SAREBBE IN GRADO OGGI DI SALVARE IL NOSTRO PAESE...




ECCO LE SUE IDEE:
Nessuna nazione nella storia è sopravvissuta a un gettito fiscale oneroso che raggiunge un terzo del suo reddito nazionale. Oggi, 37 centesimi di ogni dollaro guadagnato in questo Paese sono la parte che l'esattore pretende per sé; ciò nonostante il nostro governo continua a spendere 17 milioni di dollari al giorno in più di quanto incameri.
Per ventotto degli ultimi trentaquattro anni non siamo riusciti a pareggiare il bilancio preventivo di spesa.
LIBERTÀ E l'idea che il governo sia soggetto al popolo, che non abbia altra fonte di potere che non sia il popolo sovrano, è ancor oggi l'idea più nuova e originale che sia mai apparsa nella lunga storia delle relazioni dell'uomo con l'uomo. Ed è proprio il problema che si pone con questa elezione: se noi crediamo nella nostra capacità di autogovernarci o se invece intendiamo abbandonare la Rivoluzione Americana e confessare che una piccola élite intellettuale di una capitale lontana sia in grado di pianificare le nostre vite al posto nostro meglio di quanto sappiamo fare noi stessi.
STATALISMO I «pieni poteri di un governo centralizzato» furono esattamente la cosa che i nostri Padri Fondatori volevano evitare il più possibile. Essi sapevano che i governi non controllano le cose. Un governo non può controllare l'economia se non controllando le persone. E sapevano che, quando un governo si dispone a farlo, deve usare la forza e la coercizione per ottenere quanto si propone. Quei Padri Fondatori sapevano anche che, al di fuori delle funzioni che legittimamente competono a esso, uno Stato non riesce a fare nulla bene o con uguale parsimonia quanto il settore privato dell'economia al suo posto.
PIANIFICAZIONE Per trent'anni abbiamo cercato di risolvere il problema della disoccupazione tramite programmi governativi e più i progetti falliscono, più i pianificatori progettano.
RICCHEZZA Vi sono troppe persone che, quando vedono un uomo grasso accanto a uno magro, pensano che il primo abbia acquisito la sua prosperità necessariamente ai danni del secondo. Ecco allora che sperano di risolvere il problema dell'indigenza tramite l'intervento dello Stato e di programmi governativi. Ora, se la risposta da dare al problema fosse effettivamente intervento governativo e Stato assistenziale — e ne abbiamo fatto esperienza per quasi trent'anni — non sarebbe stato lecito aspettarsi che, almeno una volta in tutto questo tempo, il governo ci avesse fatto il punto della situazione? Ogni anno ci avrebbero comunicato i dati relativi al declino dei numeri relativi ai bisognosi e al fabbisogno di case popolari. In realtà è vero il contrario. Ogni anno il fabbisogno aumenta e aumenta ancora di più il costo degli interventi.
BUROCRAZIA Nessun governo ha mai deciso volontariamente di autoridursi. E così, una volta varati, i programmi governativi non scompaiono mai più. Di fatto, non si è mai visto su questa terra qualcosa di più vicino alla vita eterna di un dipartimento governativo. Tra funzionari e impiegati federali si raggiunge il numero di due milioni e mezzo di persone; ove poi s'includa il numero di quelli che operano a livello comunale e di Stato, si scopre che il governo impiega un sesto dell'intera forza lavoro della nazione. Questi bureau che proliferano con le loro migliaia di regolamenti ci sono già costati molte delle nostre salvaguardie costituzionali.
SOCIALISMO Ora, non sono necessari l'esproprio o la confisca della proprietà privata per imporre a un popolo il socialismo. Che importanza volete che abbia il titolo di possesso di un'azienda o di una proprietà se lo Stato detiene un potere di vita e di morte su quell'azienda o su quella proprietà? Un tale apparato è già in vigore. Lo Stato è, infatti, in grado di addossare un capo d'accusa su qualunque società esso scelga di perseguire. Ogni uomo d'affari ha la sua storia di molestie da raccontare. Da qualche parte si è insinuata una qualche forma di perversione. I nostri diritti naturali e inalienabili sono considerati alla stregua di un'elargizione dello Stato, e la libertà non è mai stata così fragile, così vicina allo sfuggirci di mano come in questo momento.
FONTE: IL GIORNALE

mercoledì 21 gennaio 2009

Dove erano i GOSPEL SINGERS?

Ieri sera il discorso di Barack Obama mi ha ricordato il sermone del solito predicatore nero, quel tipo di predicatore che di solito fa il suo intervento nel mezzo di un concerto Gospel e mi sono chiesta come mai invece tutti i media in quel discorso hanno intravisto segnali di cambiamento per il futuro americano e per tutto il mondo. Ad ascoltarlo bene era un discorso di intenti che prometteva agli americani lacrime e sangue per uscire dalla crisi e che tendeva la mano al resto del mondo purchè questa mano la si voglia, che celebrava l'America e condannava il terrorismo ....insomma dov'è la novità?

Se un simile discorso l'avesse fatto il casereccio Veltroni probabilmente sarebbe stato fischiato per eccesso di retorica.

Questa mattina i media sono tutti per Obama, l'enfasi con cui raccontano l'evento è senza dubbio sopra le righe, celebrano un Re e non un uomo che ha studiato ad Harward e che, nonostante ciò che voglio far credere, è di famiglia abbiente. Ieri quest'uomo è diventato Presidente degli Stati Uniti con una cerimonia che è costata al suo Paese miliodi di dollari ed ha continuato a parlare di sogni e di chimere come faceva in campagna elettorale. Solo IL GIORNALE ha visto quello che ho visto io e allora eccovi l'articolo di Mario Giordano.

Manuela Valletti

CARO BARACK, È TUTTO QUI? Scusate, ma non ce la faccio. Non riesco ad emozionarmi. Ce l'ho messa tutta, ve lo giuro. Niente da fare. Vedo intorno a me gente che va in sollucchero, fiumi di entusiasmo, commozione e fan scatenati. Sento parlare di «svolta globale», «evento epocale», «parole storiche» che «hanno segnato una nuova speranza per il mondo». Assisto a un'euforia contagiosa che attraversa tutti, dai ministri alle passerelle di moda, dai sindacalisti alle showgirl. E, purtroppo, non riesco a esserne parte.
Dico purtroppo perché mi dispiace. Un po' di euforia fa sempre bene, soprattutto di questi tempi. Perciò sinceramente invidio chi riesce a intravedere nel discorso che ha fatto Obama ieri la «speranza di un mondo migliore». Io ci intravedo, al massimo, un po' di onesta retorica, qualche sprazzo di vigore e una manciata di buoni sentimenti. We can e volemose bene, una strizzata d'occhio al bushismo e una scivolata verso lidi che sembrano quasi veltroniani. Fra Condoleezza Rice e Concita De Gregorio, insomma. Ma dov'è la svolta globale?
Ripeto, probabilmente è una mancanza mia. Vi chiedo scusa in anticipo. Se tutto il mondo suona le fanfare di fronte a queste parole storiche, probabilmente le parole saranno davvero storiche. Io, purtroppo, temo che domani me le sarò già dimenticate. E pensare che le ho lette e rilette per cercare di trovare lo slogan vincente, la frase tagliente, una formula di quelle che passa direttamente dal comizio all'enciclopedia, genere «nuove frontiere» o «I have a dream». O, se non altro, «dove c'è Barilla c'è casa», che non finisce nell'enciclopedia ma almeno si fa ricordare. Non sono riuscito a trovarla. L'amnesia incombe.
Ho cercato allora almeno un'idea nuova nei contenuti, una proposta forte, una soluzione innovativa. Se Obama è la nuova speranza planetaria, mi dicevo, magari tira fuori dal cilindro qualcosa di sorprendente, di quelle che le senti e dici: «Accipicchia, io non ci sarei arrivato, vedi perché lui è presidente degli Stati Uniti?». Scusatemi, ma non ho trovato nemmeno quello. Le tradizioni dei Padri, la grandezza della nazione, la fiducia da restituire. Le sfide («serie e molte», si capisce) da affrontare. «Sappi questo America: le risolveremo». Benissimo: e perché ne sei così sicuro? «Perché abbiamo scelto la speranza invece della paura, l'unità d'intenti invece della discordia». Grazie, tante: fin lì ci arrivavamo anche a Trastevere. We can e volemose bene, appunto.
Per quello che ne ho capito (ma lo ripeto: evidentemente dev'essermi sfuggito qualcosa) la parte migliore del discorso di Obama ricalca la parte migliore di Bush. Un po' di orgoglio, un po' di vigore, un messaggio chiaro ai terroristi: la guerra contro di voi continua. Ottimo, ma allora la svolta storica dov'è? Nel messaggio ai musulmani? Quel «mano tesa all'Islam» che sembra una predica di monsignor Tettamanzi? E poi che razza di novità è questa? Ma vi pare possibile? Tutto questo po' po' di evento globale per dire che ci vuole più «dialogo»?
No, per favore no: il dialogo no, almeno nel giorno in cui inizia una nuova era. C'è un po' di differenza tra la Casa Bianca e il Mulino Bianco: questo il nuovo presidente lo sa benissimo e infatti, alla faccia di tutti gli obamaniaci d'Europa, alla fine probabilmente sarà anche lui un comandante in capo, fermo e deciso a difendere l'America e il mondo, come il suo predecessore. Molto lontano dal pupazzetto simil-veltroniano che ci stanno propinando qui da noi. Ma allora, scusate, com'è che inizia la nuova era? Dov'è il cambiamento epocale? Con i suoi primi passi, cioè con la scelta degli uomini, Obama ha premiato il vecchio establishment. Il discorso d'investitura non apre nuovi orizzonti, a parte, appunto, il dialogo. Scusate, mi spiegate come posso fare, allora, per emozionarmi anch'io? Ve l'ho detto, io non ci riesco proprio. Sarò l'unico, ma non ce la faccio. Per la verità, proprio l'unico no: ho notato che anche Wall Street ieri non ha provato brividi d'entusiasmo dinanzi al momento storico. Al contrario, dopo l'intervento del presidente ha toccato i minimi. Evidentemente a chi lavora con i dané sonanti il dialogo e l'«unità d'intenti» non bastano. Ci vuole qualcosa di più, ci voleva qualcosa di più. L'altro giorno in riunione di redazione mi hanno raccontato che il giovane genio incaricato di scrivere il discorso di Obama ha avuto un mancamento per lo stress e lo sforzo compiuto nella stesura. Be', dopo aver letto il prodotto di tanto sforzo ho pensato che se avesse preso una camomilla magari si stressava meno e gli veniva meglio. L'ottimo Tg1 delle 20 ieri sera apriva con un titolone per dire che «il mondo spera». Certo: il mondo spera. E, sinceramente, sperava anche qualcosa di più. Per essere un giorno epocale, invece, l'unico commento che viene spontaneo è: tutto qui?

di mario giordano - il giornale