Visualizzazione post con etichetta giornali di partito. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta giornali di partito. Mostra tutti i post

lunedì 17 gennaio 2011

Il problema è gravissimo, ma non è il Bunga Bunga

Oggi in rete è passato di tutto, sui blog e su FB in particolare sono stati pubblicati stralci dei documenti inviati dalla Procura di Milano alla Giunta per le Autorizzazioni a Procedere della Camera dei Deputati. Questi documenti erano a disposizione di pochissimi deputati eppure sono stati divulgati liberamente. Così i  nomi di molte persone  sono diventati di dominio pubblico senza alcun rispetto per la loro privacy, queste persone potrebbero non avere nulla a che vedere con l'inchiesta eppure la marchiatura a fuoco che da ora in poi avranno addosso gli procurerà un gravissimo danno morale. C'è una sola parola che mi sento di dire e la dico da giornalista a tanti miei colleghi: VERGOGNA!
Vergogna a quella stampa che strumentalizza tutto pur di far cassetta, a quei giornalisti che per un odio politico calpestano le più elementari regole di rispetto per le persone.
Riporto qui sotto un articolo di Ostellino apparso oggi sul Corriere della Sera, nonostante questo anche il Corriere ha dato fiato alle trombe, come tanti altri giornali.
Manuela Valletti

L'attacco alle libertà individuali
Qui sono in gioco persone la cui privacy e dignità
sono state violate due volte

Se la magistratura volesse intercettare il presidente del Consiglio dovrebbe chiederne l'autorizzazione al Parlamento; che (probabilmente) non la concederebbe. Così, gli inquirenti del «caso Ruby» - non potendo intercettare il presidente del Consiglio - hanno monitorato in vari modi le persone che ne frequentavano le abitazioni private e che perciò stesso sono finite sui giornali. Uomini che, nell'immaginario collettivo, sono, ora, l'archetipo del vecchio porcaccione; ragazze che una certa opinione pubblica immagina - diciamo così - disposte a concedersi a chiunque in cambio di una raccomandazione.

Qui, le (supposte) «distrazioni» di Berlusconi - delle quali, se passibili di sanzione giudiziaria, risponderà eventualmente in Tribunale - non c'entrano; qui sono in gioco persone le cui libertà individuali, fra le quali quella alla privatezza e alla dignità, sono state violate due volte: innanzi tutto, per essere state monitorate solo perché avevano frequentato le abitazioni private del presidente del Consiglio; in secondo luogo, per essere, adesso, segnate con un marchio morale di infamia agli occhi dell'opinione pubblica. Diciamola tutta: da che mondo è mondo, se si dovessero pubblicare le generalità di uomini e di donne dediti a certi esercizi non basterebbero le pagine degli elenchi telefonici, altro che le pruriginose cronache dei giornali! E, poi, a che pro? Mettiamola, allora, per un momento, sul paradosso. Personalmente, non ho alcuna familiarità con Silvio Berlusconi, non sono mai stato invitato in una della sue abitazioni; tanto meno in compagnia di ragazze di bella presenza. Ma, dopo quanto ho letto sui media, dico subito che se, per una qualsiasi ragione, il presidente del Consiglio mi volesse vedere, lo pregherei di incontrarci a Palazzo Chigi, magari in presenza del mio vecchio collega e amico Gianni Letta, o lo inviterei io stesso in qualche ristorante milanese dove vado con mia moglie e i miei nipotini. La prospettiva di finire sui giornali, dopo un incontro ad Arcore, come partecipe di un rito «bunga bunga» - che, a dire la verità, non ho neppure ancora capito che diavolo voglia dire; i lettori mi perdoneranno, sono un uomo all'antica - la trovo francamente surreale e inaccettabile.

Per essere ancora più chiaro. Di fronte a un'ipotesi di reato - e soprattutto un'ipotesi di reato che riguardi la prostituzione di una minorenne - è legittimo che la magistratura chiami Berlusconi a risponderne ed è, altresì, sperabile che lui vada a difendersi in un'aula di tribunale (invece di farne una questione politica) come ogni altro cittadino, fatte salve le prerogative proprie del suo ruolo, come ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale. Non mi pare, invece, né consono a uno Stato di diritto né, tanto meno, a un Paese di democrazia liberale, diciamo pure, civile, che - per suffragare le accuse nei suoi confronti - si siano monitorate centinaia di altre persone, finendo con infangarne la reputazione, quale essa sia o si presuma che sia. L'idea che, d'ora in poi, sul bavero delle giacche di un certo numero di cittadini sia stato applicato, ancorché metaforicamente, un marchio quasi razzistico - ai maschi, il distintivo delle proprie senili debolezze; alle donne, quello della propria (supposta) disponibilità a soddisfarle - per il solo fatto di aver frequentato certe abitazioni, dovrebbe essere, per la coscienza di ciascun italiano, una mostruosità non solo giuridica, ma morale. Il Paese dovrebbe rifletterci se non vuole precipitare definitivamente nella barbarie.

L'agenzia inglese Reuters - si badi, inglese, un Paese dove la presunzione di innocenza è scritta nella tradizione, nel costume, nella storia, prima che nella legge - nel dare la notizia delle accuse a Berlusconi, ha rivelato anche la fonte dalla quale le aveva apprese: ambienti vicini agli stessi inquirenti. Anche qui non voglio entrare nel merito delle accuse. Mi limito a segnalare che, per ora, in attesa che la magistratura ne precisi la natura attraverso una serie di prove fattuali in sede di giudizio, tutto ciò che appare dai media è che anche al bavero della giacca dell'«inquisito» Silvio Berlusconi è stato applicato un marchio di infamia morale e che ciò, quale sia poi l'esito di un eventuale processo, è già sufficiente ad averne infangato l'immagine e la reputazione.

Questa non è una difesa del capo del governo, cui già provvedono lui stesso e i suoi avvocati, ma di alcuni principi che dovrebbero presiedere a ogni inchiesta giudiziaria e al giudizio di ciascuno di noi. Berlusconi ne risponda in un'aula di tribunale, dove, i suoi legali - che, finora, non hanno di certo goduto degli stessi mezzi di indagine, per non dire della complicità di certi media, di cui ha goduto la magistratura inquirente - sarebbero finalmente su un piano di parità con l'accusa.
Contemporaneamente, però, la domanda alla quale forze politiche, media, opinione pubblica, perché no, la stessa magistratura, mi piacerebbe volessero rispondere è se lo spettacolo cui stiamo assistendo sia quello di cui andare fieri come cittadini di un Paese appena normale. Tanto dovevo, non a Berlusconi, ma a quello straccio di verità cui dovrebbe sempre tendere ogni spirito libero.

Piero Ostellino

lunedì 28 aprile 2008

Noi "casta" dei giornalisti

Beppe Grillo ne ha fatte tante, ma questa proprio non gliela possiamo perdonare: ci costringe a scrivere in difesa della categoria dei giornalisti, della quale ben conosciamo i difetti e anche le miserie.
A pensarci bene già l’uso del termine «categoria» è improprio. Le «categorie» non esistono. Esistono gli individui, ciascuno con i propri vizi e le proprie virtù. «Categoria» è un termine appunto da Beppe Grillo, cioè da tribuno moralista che, avendo per missione il fomentare l’odio, ha bisogno di offrire ai fomentati un bersaglio certo. Ecco quindi prima il V-day contro i politici, e poi contro i giornalisti, l’altra presunta casta.
Intendiamoci. Grillo, nei suoi comizi sempre più poveri di vis comica e sempre più fegatosi e violenti, dice anche alcune (perfino molte) cose vere. Nelle sue requisitorie contro questo o quel centro di potere, mette spesso il dito in piaghe che sono davvero aperte e purulente. Ma questo non deve stupire. È una vecchia tecnica che prima di Grillo hanno sperimentato ben altri arruffapopolo: le verità contenute nei vari j’accuse sono necessarie per convincere chi ascolta dell’attendibilità di chi parla, e quindi per nascondere la menzogna complessiva.
La quale menzogna complessiva è appunto quella di dividere l’umanità in «categorie», nel generalizzare, nel compilare tabelle di buoni e cattivi. Per stare allo specifico, cioè a noi giornalisti, non c’è alcun dubbio che tra noi non manchino i «servi» (per usare il vocabolario grillesco) che fanno carriera con il bacio della pantofola; è vero anche che spesso siamo di parte, anzi faziosi. Ma la guerra santa di Grillo contro «la categoria dei giornalisti» è una colossale presa in giro. Primo, perché propone un referendum (sull’abolizione dell’Ordine) che non è fattibile; secondo, perché se non ci fosse un Ordine dei giornalisti saremmo tutti ancora più «dipendenti» da quegli editori che Grillo dipinge come i nostri burattinai; e terzo - cosa più importante - perché dell’Italia tutto si può dire tranne che non ci sia libertà di pubblicare giornali che spazino dall’estrema destra all’estrema sinistra.
Anche Grillo, per dire, ha un suo giornale. Eccome se ce l’ha.
Ma a pensarci bene è proprio questo - di Grillo come di tutti i moralisti - ciò che fa più orrore: il sostenere che se le cose non vanno la colpa è solo degli altri, illudendo se stessi (e i seguaci) di essere i migliori, i senza peccato.
da Il Giornale