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domenica 29 maggio 2011

“Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani”

Giampaolo Pansa  è da due settimane  in testa alle  classifiche di vendita con il suo nuovo libro, appunto “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” edito da Rizzoli. 
Pansa, udite.. udite,  ha lasciato indietro lo stesso Saviano, che da settimane imperversava con “Vieni via con me” (Feltrinelli), il volume che raccoglie gli interventi letti in tivù durante la trasmissione realizzata in coppia con Fabio Fazio. Pansa ha venduto oltre centoventimila copie in quindici giorni, per un totale di nove edizioni: un successo clamoroso anche per un autore conosciuto come lui. Il dato più interessante, però, riguarda il contenuto del suo libro. Che ovviamente non si riduce a una risposta all’autore di “Gomorra”, tuttavia presenta un quadro della situazione italiana molto diverso da quello dipinto ogni giorno dalle testate del gruppo Espresso, dai Santoro e dai Travaglio.

Saviano ha conquistato le folle ripetendo ad libitum la sua tiritera sulla Macchina del fango, cioè “il meccanismo con cui si arriva a diffamare qualsiasi persona”.  Bene, Pansa in “Carta straccia” analizza le varie vicende degli ultimi periodi, ad esempio la  vicenda Boffo e le sue conseguenze. Mettendo in fila i fatti, dimostra che si è trattato di un’inchiesta a tutti gli effetti. Stesso discorso per la famigerata casa di Montecarlo di Fini. Racconta il clima di ostilità feroce che si è sviluppato attorno a Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro e a tutti gli altri giornalisti che non si limitavano a prendere per oro colato il vangelo di Repubblica. Suggerisce che i giornalisti conniventi al potere economico e giudiziario vanno cercati in altre redazioni che la nostra. Va oltre: si concentra sul ruolo politico che Carlo De Benedetti, patron del giornale di Largo Fochetti, ambisce ad esercitare. Narra come Ezio Mauro abbia trasformato il suo quotidiano in un organo di orientamento ideologico, in una corazzata militante. Va a toccare i santini progressisti come Santoro, Fazio e Travaglio, non risparmia nessuno. Infatti l’Espresso e Repubblica hanno bellamente ignorato la sua opera.

Sono argomenti che Pansa tante volte ha affrontato nel suo Bestiario su Libero, ma che raccolti in un solo tomo hanno interessato migliaia di persone. Tra i suoi lettori ci saranno sicuramente tanti simpatizzanti del centrodestra, ma visto il numero di copie vendute devono essercene per forza anche parecchi che votano a sinistra e magari sono stanchi del “giornale guerrigliero” di Ezio Mauro, dei “postriboli televisivi” di Lerner e Santoro, delle notizie a senso unico del Tg3. Gente che magari ha comprato “Vieni via con me” e i libri di Travaglio e che desidera sentire una campana che non suoni a morto. In queste ore di nuovo si parla di invasione dei mezzi di comunicazione da parte di Berlusconi, di campagna elettorale dai toni drammatici per colpa del Pdl e della Lega, si ripetono i copioni raffermi già squadernati in prima serata su Raitre e Raidue. Beh, chi ha letto Pansa ha capito che la Macchina del fango non esiste, che i giornalisti puntano ad esercitare un’azione politica ma spesso e volentieri falliscono (e non per questo cessano di azzannare il Cavaliere) e che le divinità progressiste non sono infallibili, anzi, spesso raccontano balle fin troppo evidenti.  Il libro merita di essere letto, costa 19 euro e 90 centesimi ma regala alle persone per bene una grande soddisfazione.

giovedì 25 febbraio 2010

Intervista alla radio dell'Università di Salerno


Questa mattina e per 30 minuti sonostata ospite dell'Unisaund, la radio dell'Università di Palermo.
L'intervista che mi è stata dedicata ha trattato della mia attività editoriale ma è stata focalizzata sui due libri che ho dedicato a mio padre Ferdinando Valletti, "Papà mi portava in bicicletta" e "Deportato I57633 voglia di non morire", sul documentario che da questo  ultimo libro è stato tratto e dalla nascita della Associazione Culturale che porta il suo nome.
Le domande che mi hanno fatto più piacere sono state quelle che riguardavano la figura del mio papà, la sua deportazione ma anche i suoi successi professionali  e sono state molte.
La nascita dell'Associazione Culturale FERDINANDO VALLETTI   presuppone un nostro impegno  diretto per mantenere vivo il suo ricordo e il ricordo dell'orrore dei campi di sterminio  ed è in questo senso che il mio interlocutore, il giornalista Vincenzo Greco mi ha suggerito di far si che  il libro che racconta la sua deportazione e il DVD del documentario entrino a far parte della dotazione libraria delle scuole.
Quindi, oltre al concorso letterario, ora ci proporremo come obiettivo anche questo.
Un ringraziamento sentito alla stazione radio e al giornalista Vincenzo Greco da parte mia e dell'Associazione che rappresento.



E' possibile riascoltare o scaricare, suhttp://iunisa.unisa.it/PODCAST-8.html, la trasmissione "TRENTA MINUTI....CON MANUELA VALLETTI" andata in onda ieri, 25 febbraio, su unis@und.

iunisa.unisa.it
Unis@und la webradio dell' Università degli Studi di Salerno


martedì 26 maggio 2009

Quella cieca ossessione di "Repubblica"

La Repubblica di Ezio Mauro ha rifiutato qualsiasi revisionismo, anche il più moderato, per timore di perdere una quota dei suoi lettori. Quella più vecchia intellettualmente. La più allineata ai miti della sinistra. La più ostinata nel difendere la favola storica che per anni le è stata presentata come l’unica verità. Non soltanto dai partiti di sinistra, ma da molti testi scolastici di storia. Ho lavorato per quasi cinquanta anni in tanti giornali. E so bene che tutti sono in qualche modo prigionieri dei propri lettori. Per entrare in crisi, non è necessario perderli per intero: è sufficiente vedersi abbandonare da una frazione non secondaria di chi ti compra ogni giorno.
È quel che sta accadendo a La Repubblica. Non ha perso lettori che militano a sinistra, tranne i più radicali e frustrati. Bensì quelli che da un giornale pretendono equilibrio nelle cronache, pluralismo di opinioni, analisi politiche non viziate dal partito preso. Non riesco a capire perché Mauro non abbia scelto questa seconda strada. E sia rimasto inchiodato sul perbenismo pedagogico, tutto inclinato a sinistra, in difesa del partito Democratico. Lo ha deciso lui, essendo un moderato intelligente? Lo ha deciso il suo editore? Lo hanno deciso, e glielo hanno imposto, i piccoli centurioni de La Repubblica, il blocco di redattori e degli opinionisti importanti? Penso sia stata una scelta di Mauro, un direttore troppo forte e autorevole per lasciarsi imporre qualunque cosa.
Sta di fatto che da un errore di strategia culturale sono nati altri errori. Il più evidente è l’aver fatto de La Repubblica la bandiera della battaglia continua, ossessiva e irrazionale contro il centrodestra e, soprattutto, contro Berlusconi. Il Cavaliere, o il Caimano, viene preso di mira ogni giorno in ogni pagina del giornale. Nelle cronache, negli editoriali, nelle rubriche, nelle vignette, persino nella scelta delle fotografie.
Il Cavaliere non è un padreterno. Ha molti difetti. E sbaglia spesso, come accade a tutti i leader di partito. È giusto che la stampa lo controlli, lo critichi, lo attacchi quando è necessario. Ma considerarlo il genio del male, un nuovo Mussolini o un Hitler redivivo, pronto a mettere l’Italia in catene, serve soltanto al suo vittimismo. E induce a commettere troppi passi falsi.
Nell’ultimo anno, l’acume politico de La Repubblica ha fatto cilecca non poche volte. L’abbaglio più vistoso è stato quello di convincersi che il centrosinistra di Veltroni avrebbe vinto le elezioni politiche del 2008. Molti indizi inducevano a pensare il contrario. Ma in largo Fochetti hanno preferito non vederli. Di questa cecità i lettori de La Repubblica hanno avuto un esempio difficile da dimenticare. È il pronostico di Scalfari, scolpito alla fine di un suo ennesimo editoriale contro le malefatte del Caimano. La domenica 30 marzo 2008, due settimane prima del voto, Eugenio concluse così la sua predica festiva: «Ho un presentimento: il centrosinistra vincerà sia alla Camera sia al Senato. Fino a pochi giorni fa pensavo il contrario, che non ce l’avrebbe fatta. Ebbene, ho cambiato idea. Ce la fa. Con avversari di questo livello non si può perdere. Gli elettori cominciano a capirlo. Io sono pronto a scommetterci».
È anche per questa cecità che, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, La Repubblica è entrata in crisi. Il giornale di Ezio Mauro non è l’unico a soffrire. Tutti i grandi quotidiani, a parte La Stampa di Anselmi e Il Sole 24 ore di Ferruccio De Bortoli hanno il fiato grosso. Perdono copie per una crescente disaffezione dei lettori. E perdono pubblicità, a causa della depressione economica che fa sparire gli inserzionisti. I ricavi degli editori si riducono. Diventa obbligatorio tagliare tutti i costi, anche quello del personale di redazione. Pure i collaboratori di rango si vedono ridurre i compensi. Ma è la mia vecchia La Repubblica a soffrire di più. Nel dicembre 2008, secondo i dati della Federazione italiana degli editori dei giornali, aveva perso il 15.2% delle copie diffuse rispetto al dicembre 2007. E il suo distacco dal Corriere era cresciuto perché la flessione di via Solferino non aveva superato l’8%. È evidente che il pensiero unico non rende. Parlo del pensiero di largo Fochetti. Qui si forma un giornale obeso per numero di pagine, monolitico, sempre uguale a se stesso, prevedibile e noioso. L’esatto contrario del foglio libertino teorizzato da Scalfari. Tutti gli editorialisti la vedono allo stesso modo e scrivono il medesimo articolo. Di solito sparacchiando contro Berlusconi, il mostro da abbattere. L’effetto è quello del disco rotto che ripete di continuo una sola canzone. Le opinioni in contrasto con il coro non sono ammesse, come dimostra la mia piccola vicenda. Pure il lettore più distratto sa in partenza cosa leggerà l’indomani su La Repubblica. Del resto, molti lettori, soprattutto a sinistra, non vogliono avere sorprese, visto che hanno già tante disgrazie. Desiderano essere rassicurati nelle loro opinioni. Rifiutano di veder mettere in dubbio quello che pensano. E alle domande imbarazzanti preferiscono i luoghi comuni, le prediche abituali, il rosario immutabile delle invettive e degli elogi. In questo senso, cito Andrea Romano, «La Repubblica è l’unico vero giornale di partito che sopravviva in Italia». Però tanti altri lettori non ragionano così. E cambiano giornale o smettono di acquistarne uno.
(*tratto da «Il revisionista», Rizzoli)

domenica 26 aprile 2009

25 APRILE: una festa di partito e gli italiani sono stufi

Ma del 25 aprile, poi, agli italiani interessa ancora qualcosa? Di questo sfoggio una tantum di valori resistenti, non sono pieni come dopo un'abbuffata? Il giornalista Giampaolo Pansa risponde che sì, gli italiani non ne possono più. "E' una festa di partito, cavalcata in maniera arrogante da tutte le sinistre. Una manifestazione in vetrina, un'adunata delle sinistre regressiste", dice intervistato da Rossano Salini su www.ilsussidiario.net. Vi riporponiamo parte del suo pensiero. 


Pansa, intorno a questa festa tutti gli anni si fa un gran parlare sui giornali: ma alla gente interessa ancora festeggiare il 25 aprile?

No, è una festa che non viene più sentita dalla gente, per il semplice motivo che ormai da anni è diventata, di fatto, una festa di partito. Questo è avvenuto un po’ per l’assenza dell’opinione pubblica di centrodestra; ma soprattutto ciò si è verificato a causa della cavalcata arrogante di tutte le sinistre. Ricordo invece che c’è stato un tempo in cui la cosa era vissuta in modo diverso. Nel 1945 io avevo dieci anni, e abitavo in una piccola città del Piemonte, Casalmonferrato: lì, allora, negli anni successivi si assisteva a una festa di tutti. Poi è cambiata radicalmente.

Che cosa in particolare è cambiato?

È diventata – soprattutto la manifestazione più in vetrina di tutte, cioè quella di Milano – un’adunata di tutte le sinistre che io chiamo “regressiste”, quelle più scaldate, che coprono di insulti chiunque parli dal palco e non appartenga al loro clan. Questo è accaduto a Pezzotta qualche anno fa; e soprattutto è successo a Letizia Moratti, colpevole di essere stata ministro con Berlusconi, che fu letteralmente cacciata dal corteo, nonostante si trovasse lì con suo padre Paolo Brichetto, un bravo partigiano della Brigata Franchi di Edgardo Sogno, poi finito a Dachau. Di fronte a questi episodi risulta evidente che sia diventata una festa senza senso. Ecco perché l’opinione pubblica diserta questi appuntamenti: non la sente come festa nazionale, perché connotata da un antifascismo autoritario, che esclude, anziché includere.

Lei ha scritto molti libri su queste vicende, e andando in giro per l’Italia a presentarli ha incontrato tanta gente che ha vissuto sulla propria pelle certe esperienze. Che tipo di umanità emerge in questi incontri?

Sì, in effetti incontro tantissima gente, ancora oggi. Già quando è uscito nel 2002 “I figli dell’aquila”, la storia di un ragazzo che aveva combattuto con la Repubblica sociale, avevo cominciato a ricevere molte lettere, di gente che sostanzialmente diceva: «meno male che c’è qualcuno che racconta l’altra parte della storia». Ma quello che più mi ha colpito – lo ricordo anche nel libro che uscirà a fine maggio per Rizzoli, dal titolo “Il revisionista” – è che con l’uscita del “Sangue dei vinti”, a ottobre 2003, ricevetti già prima di Natale più di duemila lettere, ancora dello stesso tono.

Non è dunque una parte marginale dell’Italia quella che aveva bisogno che qualcuno raccontasse l’altra parte della storia.

C’è stata – e c’è ancora oggi – un’Italia divisa, cui ci riferiamo quando parliamo di guerra civile. In mezzo c’era quella che Renzo De Felice chiamava la “zona grigia”, di cui per altro faceva parte anche la mia famiglia, fatta di gente che aspettava che finisse la guerra, sia quella dei bombardamenti che quella dei rastrellamenti. Ma c’era anche l’Italia che aveva combattuto con la Repubblica di Mussolini, e che è stata messa a tacere. Io non faccio altro che incontrare tutti i giorni, per strada, al bar, in treno, al ristorante, gente che mi ferma e mi ringrazia per aver dato voce a un’Italia che è stata costretta a stare zitta per sessant’anni.

Verrebbe da dire che sono più gli esclusi che hanno voglia di fare una festa…

In effetti questa Italia sarebbe disposta sì a fare una festa, che fosse una festa vera. Sarebbe cioè disposta a celebrare il 25 aprile come la data che segna la fine della guerra per tutti, anche per chi ha perso. Ma quando poi vede che è diventata la festa dei vincitori, e soprattutto di quelli più autoritari, allora conclude che è meglio stare a casa.

Ma è una cosa che riguarda solo le generazioni passate, o vede questo stesso sentimento anche nelle generazioni successive a quelle della guerra?

Be’, visto che gli anni passano, mi capita di incontrare qualcuno molto anziano, che è stato nella Repubblica sociale; ma nella maggior parte dei casi incontro i loro figli e nipoti, e nella loro memoria la guerra civile è ancora presente. Il silenzio imposto, obbligato, visto come una costrizione ingiusta, crea una rabbia che poi si estende a giri famigliari sempre più vasti. Magari anche gente che vota a sinistra, ma che non digerisce questa Italia dalla lingua tagliata, e che si ribella, seppur pacificamente, a che ci sia una parte della vicenda della nostra storia che debba essere cancellata.

Quando ha iniziato a scrivere su questi argomenti prevedeva che avrebbero riscosso tanto successo, e che avrebbero generato anche tante polemiche?

Io ho iniziato a scriverli quasi senza rendermi conto di quello che facevo; poi è andata crescendo la sensazione di aver preso una strada molto importante. Una strada che racconto in questo ultimo libro, “Il revisionista”: mi era stato chiesto di raccontare il mio percorso autobiografico, ma m’è sembrata una richiesta eccessiva. Non sono un personaggio così importante, e quindi, come si dice dalle mie parti, mi sono tenuto basso. Ho voluto raccontare come sono arrivato a scrivere questi libri, per dare voce a un’Italia costretta al silenzio, che in questo mi ha seguito. Pensare di essere i soli a rappresentare l’Italia, come fa la sinistra “regressista”, è una vera stupidaggine, perché poi la gente non ti crede, e non ti segue. Anche se poi Piazza del Duomo viene riempita, non cambia nulla: non è comunque una festa sentita.

Cosa ne pensa infine della scelta di Berlusconi di partecipare alle manifestazioni ma di non andare a Milano?

Ne ho parlato nel pezzo uscito sul Riformista martedì: un articolo tutto sommato banale, in cui non ho fatto altro che dire al presidente del Consiglio: prima di decidere di andare a Milano, bisogna che qualcuno le ricordi quello che è successo negli ultimi anni. E non ho nemmeno ricordato tutto: solo dopo aver mandato il pezzo infatti mi sono ricordato che c’erano state anche le nuove brigate rosse, che avevano sfilato con giganteschi cartelloni riportanti i nomi dei loro compagni in cella. E nessuno li ha cacciati dal corteo. Ora giustamente Berlusconi non andrà a Milano, ma andrà a Onna, paese distrutto dal terremoto, che fu anche teatro di una strage operata dai tedeschi in ritirata. Ha fatto bene a prendere questa decisione, e a non dare ascolto all’invito scioccamente arrogante di Franceschini. È stato questo il motivo per cui ho deciso di scrivere l’articolo: m’ha dato fastidio quell’arroganza nel dire: “vieni a Milano, che ti copro io”. Detto poi da uno che non è nemmeno in grado di coprire sé stesso.

(Rossano Salini)