domenica 29 maggio 2011
“Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani”
giovedì 25 febbraio 2010
Intervista alla radio dell'Università di Salerno
E' possibile riascoltare o scaricare, suhttp://iunisa.unisa.it/PODCAST-8.html, la trasmissione "TRENTA MINUTI....CON MANUELA VALLETTI" andata in onda ieri, 25 febbraio, su unis@und.
martedì 26 maggio 2009
Quella cieca ossessione di "Repubblica"
È quel che sta accadendo a La Repubblica. Non ha perso lettori che militano a sinistra, tranne i più radicali e frustrati. Bensì quelli che da un giornale pretendono equilibrio nelle cronache, pluralismo di opinioni, analisi politiche non viziate dal partito preso. Non riesco a capire perché Mauro non abbia scelto questa seconda strada. E sia rimasto inchiodato sul perbenismo pedagogico, tutto inclinato a sinistra, in difesa del partito Democratico. Lo ha deciso lui, essendo un moderato intelligente? Lo ha deciso il suo editore? Lo hanno deciso, e glielo hanno imposto, i piccoli centurioni de La Repubblica, il blocco di redattori e degli opinionisti importanti? Penso sia stata una scelta di Mauro, un direttore troppo forte e autorevole per lasciarsi imporre qualunque cosa.
Sta di fatto che da un errore di strategia culturale sono nati altri errori. Il più evidente è l’aver fatto de La Repubblica la bandiera della battaglia continua, ossessiva e irrazionale contro il centrodestra e, soprattutto, contro Berlusconi. Il Cavaliere, o il Caimano, viene preso di mira ogni giorno in ogni pagina del giornale. Nelle cronache, negli editoriali, nelle rubriche, nelle vignette, persino nella scelta delle fotografie.
Il Cavaliere non è un padreterno. Ha molti difetti. E sbaglia spesso, come accade a tutti i leader di partito. È giusto che la stampa lo controlli, lo critichi, lo attacchi quando è necessario. Ma considerarlo il genio del male, un nuovo Mussolini o un Hitler redivivo, pronto a mettere l’Italia in catene, serve soltanto al suo vittimismo. E induce a commettere troppi passi falsi.
Nell’ultimo anno, l’acume politico de La Repubblica ha fatto cilecca non poche volte. L’abbaglio più vistoso è stato quello di convincersi che il centrosinistra di Veltroni avrebbe vinto le elezioni politiche del 2008. Molti indizi inducevano a pensare il contrario. Ma in largo Fochetti hanno preferito non vederli. Di questa cecità i lettori de La Repubblica hanno avuto un esempio difficile da dimenticare. È il pronostico di Scalfari, scolpito alla fine di un suo ennesimo editoriale contro le malefatte del Caimano. La domenica 30 marzo 2008, due settimane prima del voto, Eugenio concluse così la sua predica festiva: «Ho un presentimento: il centrosinistra vincerà sia alla Camera sia al Senato. Fino a pochi giorni fa pensavo il contrario, che non ce l’avrebbe fatta. Ebbene, ho cambiato idea. Ce la fa. Con avversari di questo livello non si può perdere. Gli elettori cominciano a capirlo. Io sono pronto a scommetterci».
È anche per questa cecità che, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, La Repubblica è entrata in crisi. Il giornale di Ezio Mauro non è l’unico a soffrire. Tutti i grandi quotidiani, a parte La Stampa di Anselmi e Il Sole 24 ore di Ferruccio De Bortoli hanno il fiato grosso. Perdono copie per una crescente disaffezione dei lettori. E perdono pubblicità, a causa della depressione economica che fa sparire gli inserzionisti. I ricavi degli editori si riducono. Diventa obbligatorio tagliare tutti i costi, anche quello del personale di redazione. Pure i collaboratori di rango si vedono ridurre i compensi. Ma è la mia vecchia La Repubblica a soffrire di più. Nel dicembre 2008, secondo i dati della Federazione italiana degli editori dei giornali, aveva perso il 15.2% delle copie diffuse rispetto al dicembre 2007. E il suo distacco dal Corriere era cresciuto perché la flessione di via Solferino non aveva superato l’8%. È evidente che il pensiero unico non rende. Parlo del pensiero di largo Fochetti. Qui si forma un giornale obeso per numero di pagine, monolitico, sempre uguale a se stesso, prevedibile e noioso. L’esatto contrario del foglio libertino teorizzato da Scalfari. Tutti gli editorialisti la vedono allo stesso modo e scrivono il medesimo articolo. Di solito sparacchiando contro Berlusconi, il mostro da abbattere. L’effetto è quello del disco rotto che ripete di continuo una sola canzone. Le opinioni in contrasto con il coro non sono ammesse, come dimostra la mia piccola vicenda. Pure il lettore più distratto sa in partenza cosa leggerà l’indomani su La Repubblica. Del resto, molti lettori, soprattutto a sinistra, non vogliono avere sorprese, visto che hanno già tante disgrazie. Desiderano essere rassicurati nelle loro opinioni. Rifiutano di veder mettere in dubbio quello che pensano. E alle domande imbarazzanti preferiscono i luoghi comuni, le prediche abituali, il rosario immutabile delle invettive e degli elogi. In questo senso, cito Andrea Romano, «La Repubblica è l’unico vero giornale di partito che sopravviva in Italia». Però tanti altri lettori non ragionano così. E cambiano giornale o smettono di acquistarne uno.
(*tratto da «Il revisionista», Rizzoli)
domenica 26 aprile 2009
25 APRILE: una festa di partito e gli italiani sono stufi
Pansa, intorno a questa festa tutti gli anni si fa un gran parlare sui giornali: ma alla gente interessa ancora festeggiare il 25 aprile?
No, è una festa che non viene più sentita dalla gente, per il semplice motivo che ormai da anni è diventata, di fatto, una festa di partito. Questo è avvenuto un po’ per l’assenza dell’opinione pubblica di centrodestra; ma soprattutto ciò si è verificato a causa della cavalcata arrogante di tutte le sinistre. Ricordo invece che c’è stato un tempo in cui la cosa era vissuta in modo diverso. Nel 1945 io avevo dieci anni, e abitavo in una piccola città del Piemonte, Casalmonferrato: lì, allora, negli anni successivi si assisteva a una festa di tutti. Poi è cambiata radicalmente.
Che cosa in particolare è cambiato?
È diventata – soprattutto la manifestazione più in vetrina di tutte, cioè quella di Milano – un’adunata di tutte le sinistre che io chiamo “regressiste”, quelle più scaldate, che coprono di insulti chiunque parli dal palco e non appartenga al loro clan. Questo è accaduto a Pezzotta qualche anno fa; e soprattutto è successo a Letizia Moratti, colpevole di essere stata ministro con Berlusconi, che fu letteralmente cacciata dal corteo, nonostante si trovasse lì con suo padre Paolo Brichetto, un bravo partigiano della Brigata Franchi di Edgardo Sogno, poi finito a Dachau. Di fronte a questi episodi risulta evidente che sia diventata una festa senza senso. Ecco perché l’opinione pubblica diserta questi appuntamenti: non la sente come festa nazionale, perché connotata da un antifascismo autoritario, che esclude, anziché includere.
Lei ha scritto molti libri su queste vicende, e andando in giro per l’Italia a presentarli ha incontrato tanta gente che ha vissuto sulla propria pelle certe esperienze. Che tipo di umanità emerge in questi incontri?
Sì, in effetti incontro tantissima gente, ancora oggi. Già quando è uscito nel 2002 “I figli dell’aquila”, la storia di un ragazzo che aveva combattuto con la Repubblica sociale, avevo cominciato a ricevere molte lettere, di gente che sostanzialmente diceva: «meno male che c’è qualcuno che racconta l’altra parte della storia». Ma quello che più mi ha colpito – lo ricordo anche nel libro che uscirà a fine maggio per Rizzoli, dal titolo “Il revisionista” – è che con l’uscita del “Sangue dei vinti”, a ottobre 2003, ricevetti già prima di Natale più di duemila lettere, ancora dello stesso tono.
Non è dunque una parte marginale dell’Italia quella che aveva bisogno che qualcuno raccontasse l’altra parte della storia.
C’è stata – e c’è ancora oggi – un’Italia divisa, cui ci riferiamo quando parliamo di guerra civile. In mezzo c’era quella che Renzo De Felice chiamava la “zona grigia”, di cui per altro faceva parte anche la mia famiglia, fatta di gente che aspettava che finisse la guerra, sia quella dei bombardamenti che quella dei rastrellamenti. Ma c’era anche l’Italia che aveva combattuto con la Repubblica di Mussolini, e che è stata messa a tacere. Io non faccio altro che incontrare tutti i giorni, per strada, al bar, in treno, al ristorante, gente che mi ferma e mi ringrazia per aver dato voce a un’Italia che è stata costretta a stare zitta per sessant’anni.
Verrebbe da dire che sono più gli esclusi che hanno voglia di fare una festa…
In effetti questa Italia sarebbe disposta sì a fare una festa, che fosse una festa vera. Sarebbe cioè disposta a celebrare il 25 aprile come la data che segna la fine della guerra per tutti, anche per chi ha perso. Ma quando poi vede che è diventata la festa dei vincitori, e soprattutto di quelli più autoritari, allora conclude che è meglio stare a casa.
Ma è una cosa che riguarda solo le generazioni passate, o vede questo stesso sentimento anche nelle generazioni successive a quelle della guerra?
Be’, visto che gli anni passano, mi capita di incontrare qualcuno molto anziano, che è stato nella Repubblica sociale; ma nella maggior parte dei casi incontro i loro figli e nipoti, e nella loro memoria la guerra civile è ancora presente. Il silenzio imposto, obbligato, visto come una costrizione ingiusta, crea una rabbia che poi si estende a giri famigliari sempre più vasti. Magari anche gente che vota a sinistra, ma che non digerisce questa Italia dalla lingua tagliata, e che si ribella, seppur pacificamente, a che ci sia una parte della vicenda della nostra storia che debba essere cancellata.
Quando ha iniziato a scrivere su questi argomenti prevedeva che avrebbero riscosso tanto successo, e che avrebbero generato anche tante polemiche?
Io ho iniziato a scriverli quasi senza rendermi conto di quello che facevo; poi è andata crescendo la sensazione di aver preso una strada molto importante. Una strada che racconto in questo ultimo libro, “Il revisionista”: mi era stato chiesto di raccontare il mio percorso autobiografico, ma m’è sembrata una richiesta eccessiva. Non sono un personaggio così importante, e quindi, come si dice dalle mie parti, mi sono tenuto basso. Ho voluto raccontare come sono arrivato a scrivere questi libri, per dare voce a un’Italia costretta al silenzio, che in questo mi ha seguito. Pensare di essere i soli a rappresentare l’Italia, come fa la sinistra “regressista”, è una vera stupidaggine, perché poi la gente non ti crede, e non ti segue. Anche se poi Piazza del Duomo viene riempita, non cambia nulla: non è comunque una festa sentita.
Cosa ne pensa infine della scelta di Berlusconi di partecipare alle manifestazioni ma di non andare a Milano?
Ne ho parlato nel pezzo uscito sul Riformista martedì: un articolo tutto sommato banale, in cui non ho fatto altro che dire al presidente del Consiglio: prima di decidere di andare a Milano, bisogna che qualcuno le ricordi quello che è successo negli ultimi anni. E non ho nemmeno ricordato tutto: solo dopo aver mandato il pezzo infatti mi sono ricordato che c’erano state anche le nuove brigate rosse, che avevano sfilato con giganteschi cartelloni riportanti i nomi dei loro compagni in cella. E nessuno li ha cacciati dal corteo. Ora giustamente Berlusconi non andrà a Milano, ma andrà a Onna, paese distrutto dal terremoto, che fu anche teatro di una strage operata dai tedeschi in ritirata. Ha fatto bene a prendere questa decisione, e a non dare ascolto all’invito scioccamente arrogante di Franceschini. È stato questo il motivo per cui ho deciso di scrivere l’articolo: m’ha dato fastidio quell’arroganza nel dire: “vieni a Milano, che ti copro io”. Detto poi da uno che non è nemmeno in grado di coprire sé stesso.
(Rossano Salini)