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venerdì 18 luglio 2008

DIBATTITO SUL CASO DI ELUANA ENGLARO

Una legge per le mille Eluane

Son qui da mezz'ora che cincischio per trovare le parole giuste, e allora al diavolo le parole giuste, neanche la morte di una figlia in fondo è un pranzo di gala: e allora dico subito, sul caso di Eluana Englaro, che provo una forma di disprezzo per tanta classe politica e per tanti miei colleghi spesso ottusi, pavloviani, più semplicemente ignoranti su questo tema.

Quale tema, poi? Ecco il punto: perché il tema che viene sviscerato in tante opinioni che ho letto, in realtà, non viene sviscerato per niente, la prosa resta generica, precotta, «i confini della vita» e dintorni, è il temino bioetico imparato a memoria da tanti politici da intervista telefonica e da tanti opinionisti polivalenti che mica si aggiornano, mica studiano, mica entrano più di tanto nel merito del singolo caso: alla fine scrivono sempre lo stesso articolo e ogni volta lo travestono: i politici non si muovono dai loro palazzi e gli opinionisti dalle loro scrivanie. I princìpi-cardine restano astrattamente sempre quelli, e chi se ne frega del famoso Paese reale, ossia il Paese che in stragrande maggioranza (lo dico alto e forte e ho le mie fonti, non so voi) è assolutamente favorevole al padre di Eluana Englaro e alla sua battaglia: non è spaccato, non è bipolarizzato, perlomeno su questo non lo è. Ma il disprezzo di cui parlavo non è per le opinioni meramente diverse dalle mie, bensì per la nutritissima brigata di chi alla fine del suo temino, del suo ragionamentino etico, in sostanza dice che occorre fare questo: niente.

Che cosa dice di fare, la Chiesa? Niente: ma è il suo lavoro, potremmo dire. E allora che cosa vuol fare il centrodestra? Niente. Che cosa propongono tanti corsivisti apparsi anche su questo giornale? Niente. Non c'è nessun problema, in Italia: solo pochi casi Welby o Englaro sui quali esercitarsi ogni tanto. Ma dico io: ma di che accidente ha ancora bisogno, questo Paese, per accorgersi che serve una legge per distinguere tra cura e accanimento terapeutico? Per distinguere tra eutanasia e testamento biologico? Tra consenso informato e suicidio assistito? Tra casino e civiltà? Ci vuole fegato, ci vuole il coraggio dell'ignavia per dire che una nuova legge non serva, ci vuole pelo sullo stomaco per sostenere che siano sufficienti gli articoli 13 e 32 della Costituzione laddove parlano della libertà personale e del diritto dei cittadini di non farsi somministrare trattamenti sanitari contro la loro volontà.

Ma che vi credete, che lo scontro sia tra i favorevoli e i contrari all'eutanasia? Lo scontro, impari, è tra chi vorrebbe far qualcosa e chi invece niente. Voi fate come volete: poi non dite però che la Magistratura occupa gli spazi della politica, dite semmai che la politica lascia dolosamente scoperti degli spazi di cui la Magistratura non può infine non occuparsi, dite che l'ormai fisiologico ritardo culturale del nostro Parlamento non fa che produrre contrapposizioni ideologiche che attizzano magari il nostro prezioso dibattere sui giornali, come no, ma affianco del quale il nostro Paese, il famoso Paese reale, deve intanto cavarsela da solo: deve lasciare al grigio degli ospedali la scandalosa clandestinità dove il decesso di centinaia di migliaia di pazienti (centinaia di migliaia di pazienti) è accompagnato da un intervento segreto e non dichiarato dei medici. Lo dico a certi cattolici: vi fidate almeno del Centro di Bioetica dell'Università Cattolica di Milano? Ebbene, un suo studio facilmente reperibile ha spiegato che il 3,6 per cento dei medici ha praticato l'eutanasia di nascosto e il 42 per cento (ripeto: 42 per cento) la sospensione delle cure di nascosto: anche perché senza telecamere in giro non è poi così difficile. La rivista scientifica Lancet sostiene che il 23 per cento dei decessi, in Italia, è stato preceduto da una decisione medica, e che il 79,4 per cento dei medici è disposto a interrompere il sostentamento vitale. Di nascosto, ovvio: ma una nuova legge non serve, giusto? Come dite, non credete a Lancet ? Pensate che i dati siano altri? Perfetto: si fanno commissioni su qualsiasi idiozia, in Italia, ma un'indagine conoscitiva sul fenomeno non interessa a nessuno e l'ipotesi di farne una su questo è stata bocciata dal Parlamento nel dicembre 2006, e non so a voi: ma a me non sembra una questione di poco conto il sapere se il decesso di centinaia di migliaia di persone, nel mio Paese, sia accompagnato o no da un intervento non dichiarato dei medici. Invece si preferisce far finta di niente sinché non capita a noi, a una persona cara, ed è questo che disprezzo: che le nostre ignavie legislative generano sofferenza. La chiedono i medici, i magistrati, il Consiglio superiore di Sanità: macché, niente legge in Italia, unica in Occidente, anche perché intanto la parte più antilibertaria del Paese vede eutanasia dappertutto e usa menzionarla di continuo per confondere le acque: l'eutanasia c'è in mezza Europa, è vero, ma qui da noi non la vuole praticamente nessuno, non è di eutanasia che si parla, chi continua a nominarla non fa che pescare nel torbido. L'eutanasia è il dare la morte a una persona lucida e malata che espressamente la chieda, mentre il testamento biologico, quello che in Parlamento fingono di discutere da anni, è la dichiarazione dei trattamenti sanitari che vorremmo o non vorremmo ci fossero applicati nel giorno in cui, da malati, non fossimo più in grado di decidere. Sempre che non si preferisca, come oggi, che la sofferenza nostra e dei nostri cari sia risolta clandestinamente oppure discussa nelle nostre preziose opinioncine sui giornali.

Discussa da chi a margine del caso Englaro alza il ditino e declama, dalla sua scrivania, solo ciò che non va fatto. Ma io rovescio la domanda e gli chiedo: dimmi, che cosa andava fatto, che cosa va fatto? La so la risposta: niente. Niente: era una precisa corrente di pensiero, tempo fa, anche nelle caverne.
Filippo Facci

Ecco perché porto una bottiglia in piazza per Eluana
Caro Filippo,
oggi ho portato una bottiglia d'acqua sul sagrato del Duomo, come segno tangibile, nella società dell'immagine, ancorché risibile, all'epoca delle sentenze che decidono dalla misura delle carote al destino di una vita umana, che nessuno ha il diritto di far morire di sete e di fame Eluana. Non ho portato un segno per “le mille Eluana”, come dici tu, Filippo, ma per quell'Eluana lì, in carne e ossa, caso specifico dove non esiste nessun accanimento terapeutico, nessuna somministrazione inutile di medicinali o macchine. Ma esiste (e gli si vuol far venire a mancare) semplicemente un sondino, un'idratazione e una nutrizione, che non si dovrebbero far mancare a nessuno, malato o no, bambino o vecchio egli sia, che non è in grado di bere e mangiare da sé. Eluana non ci può dire niente di sé, se non che è lì, c'è, esiste, è presenza muta ma non priva di comunicativa – e sono interrogativi seri, direi. Ma tu, Filippo, sostieni che sono dalla parte di quelli del disprezzabile “far niente”, di quelli “delle caverne”, di quelli lontani dal famoso “paese reale”, di quelli che “non studiano, non si aggiornano”, di quelli che non hanno capito che oggi l'eutanasia c'è, silenziosa, nascosta, clandestina, praticata dal 3,6 per cento dei medici; di quelli che invece di battersi per leggi che regolino eutanasia e testamento biologico (due cose diverse, come ci ricordi tu, Filippo) scrivono sempre lo stesso articolo e ogni volta lo travestono di nuovi e inutili blablà. Posso dirtelo, in tutta franchezza e sincerità, caro Filippo? Sbagli bersaglio. Tu confondi le tue emozioni con la realtà. Confondi i tuoi sentimenti con quella presenza lì, che ti dice, “scusa, ma in tutto quel bel programma di leggi e di testamenti biologici che auspichi, io, adesso, che sono?”. La tua risposta implicita sembra essere: tu, Eluana, sei niente. O forse: sei qualcosa, sì, forse un bene, chissà, ma comunque qualcosa che deve essere immediatamente a disposizione della volontà di un padre e di un giudice. Vedi, Filippo, la risposta di quelli che sono andati sul sagrato è opposta. Dice: Eluana è una di noi, e né il padre, né tantomeno un giudice, possono decidere di ammazzarla, come invece poteva succedere al tempo delle caverne e come ancora succede nel regno animale, un individuo debole o malato viene ammazzato dal resto del branco. Che poi tu, Filippo, non veda l'ora di avere leggi che entrino a regolare gli aspetti più delicati della vita e della morte; che tu, Filippo, abbia questa appassionata convinzione che le leggi possano rendere giustizia della sofferenza e del marasma di dolore che c'è sotto il cielo, questo è tutt'altro affare da ciò che, nello specifico, stiamo raccontando in questi giorni che seguono a un problema che non è stato posto dalla chiesa, ma dal concreto agire di un giudice. Che debbano essere le leggi dello Stato e non quelle della coscienza a decidere quando la vita è degna o non degna di essere vissuta è un'opinione. Come è un'opinione la mia che, invece, ritiene che la legge debba solo affermare positivamente il principio che la vita umana è un bene indisponibile. Mentre poi, nel caso specifico di malato terminale, in coma e quant'altro, le leggi dello stato non ci devono proprio entrare, poiché nel caso specifico vale la legge millenaria della medicina di Ippocrate, vale la legge da sempre iscritta nelle coscienze umane, valgono i progressi della scienza per alleviare il dolore, vale la buona fede che nessuno (fino a prova fattuale contraria), sia esso medico, paziente o parente, vuole la sofferenza, l'accanimento, la tortura terapeutica. Insomma, sono due opinioni - la tua che spera nella legge, la mia che spera nell'uomo - che il lettore considererà e giudicherà, mi auguro, a partire da una riflessione sulla propria esperienza, non, come ringrazio il direttore di aver precisato in margine al tuo intervento, a partire da chi disprezza più forte.
Luigi Amicone

Fonte il GIORNALE