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mercoledì 30 novembre 2011

Filippo Facci sul fine vita

In questo bellissimo articolo Filippo Facci affronta i temi del fine vita con una "diagnosi" molto realistica sulle ipocrisie di una politica  molto condizionata dalla presenza del Vaticano e di una società che non prende posizione pur vivendo sulla propria pelle situazioni all'estremo della sopportabilità. Lo spunto è il suicidio assistito di Lucio Magri in Svizzera. Facci si domanda  se potersi suicidare con assistenza in un paese straniero  sia, come sempre, un privilegio dei benestanti. Ovviamente la risposta è SI!


Il suicidio come privilegio

di Filippo Facci

In Italia puoi decidere di andare all’estero a ucciderti legalmente, basta avere i soldi e le conoscenze. In Italia puoi decidere di andare all’estero per la fecondazione assistita, basta avere i soldi e le conoscenze. In Italia puoi decidere di ricorrere all’eutanasia di una persona cara – se non vuoi andare all’estero – e qui forse bastano le conoscenze.
Esattamente come in Italia potevi abortire o divorziare alla Sacra Rota: bastavano i soldi e le conoscenze, e in parte è ancora così. Gli è che una società del genere, in cui i diritti o le facoltà sono regolati dai soldi e dalle conoscenze, è feudale e ingiusta prima ancora che classista. È anche stupida e ipocrita, considerando che ormai viviamo in un’Europa senza frontiere – è il periodo giusto per sottolinearlo – e ogni mancata regolamentazione, in Italia, sa quindi di polvere sotto il tappeto, di doppiezza bigotta o porporale o trinariciuta, quel che volete.
E voi magari pensate che tutto questo sia affare altrui, da manichei professionali, da folgorati ciellini contrapposti a laicisti senzadio, roba da Porta a Porta la sera tardi: perché voi siete personcine sensate e se dipendesse da voi, appunto, ci sarebbe molta più libertà di autoregolare la propria esistenza senza nuocere al prossimo, come no. Ma non è vero, cioè: non è possibile che questo scollamento tra il buonsenso comune e le leggi fatte dai politici – che mancano, o sono vergognose – non abbia una spiegazione che in qualche modo non ci veda anche complici.
In Italia discutiamo di principi ma non facciamo le leggi, all’estero guardano alla vita reale e fanno leggi che cercano di regolarsi alla meno peggio: senza pretendere di rispondere ai grandi quesiti della vita. La Svizzera resterà famosa per le banche e gli orologi a cucù, non per il suicidio assistito a cui Lucio Magri, cittadino italiano informato, ha deciso di ricorrere. E così per tutto il resto: la facoltà di andare all’estero per fare ciò che in Italia è formalmente proibito, da noi, non è vista come un problema, ma come una discreta soluzione. Una soluzione, al solito, cementata a un’ipocrisia profonda, storicamente e culturalmente radicata, inguaribile, ormai codificata: si fa ma non si dice.
Che cosa, si fa? Tutto, purché non ci si faccia beccare: sesso, adulterio, aborto, eutanasia, abusi edilizi, lo scontrino che non ti hanno dato ma che tu non hai chiesto, evasione fiscale, auto in doppia fila, nell’insieme un’immensa zona grigia in cui il lecito può essere moralmente illecito, e l’illecito confina, invece, con una cultura tutta italiana nel definire leggi che probabilmente, già si sa, non verranno rispettate. Ogni nuova regola contempla in partenza un venturo accomodamento, una mediazione a metà tra il suk latino e il rosso porporale. L’accomodamento e la mediazione, a proposito di certe imbarazzanti questioni, è che si deve andare all’estero. Che schifo.
Lagnarsi che la politica italiana tralasci certi questioni, oltretutto, può essere pericoloso: perché il Paese reale con le sue soluzioni sottaciute, tutto sommato, è ancora migliore di un Parlamento in ormai cronico ritardo culturale; meglio la discrezione dei medici piuttosto che certi folgorati che badano solo all’acquiescenza vaticana e non a quella della maggioranza degli italiani. Meglio un Paese che per risolvere dei problemi dolosamente vacanti debba ricorrere all’invasività della magistratura (vedi caso Welby o caso Englaro) piuttosto che quei pateracchi teologici sul testamento biologico o sulla fecondazione assistita, temi per i quali sarebbe bellissimo riportare gli italiani nelle piazze. Ed è qui che entriamo in ballo noi: noi che – di destra o sinistra non importa, come i sondaggi dimostrano – su temi come fine-vita, Legge 194, coppie di fatto, divorzio breve e laicità dello Stato la pensiamo in maniera diametralmente opposta a come (non) legiferano i nostri governi. Perché sappiamo che a dividere le coscienze, alla fine, è solo il nostro vissuto personale, sono le nostre laceranti esperienze private: non un caso Welby o un caso Englaro, non un monologo di Saviano o il suicidio di Mario Monicelli, tantomeno quello di Lucio Magri; non certe opinioni declarate, gli slogan disinformati, i princìpi recitati a freddo, i soliti cretinismi bipolari di esponenti di destra o di sinistra che si consultano per sapere che opinione devono avere. Non quel poveretto dell’Udc che ieri, a proposito di Lucio Magri, ha parlato di «viltà».
Solo quello ci conforta: il nostro vissuto personale, qualcosa che soffriamo e serbiamo silenziosamente per noi. Incapaci, come siamo, di trasfigurarlo nella legittima battaglia di una legittima società civile – o borghesia, direbbe Giuseppe De Rita – che purtroppo non siamo ancora diventati. Dicono che certi temi non spostano voti. Può darsi. I benestanti e gli informati, intanto, sanno come fare. Se sono malati incurabili, e se soffrono come cani, sanno come fare. Persino se vogliono suicidarsi, sanno come fare, sanno dove andare. Mentre i poveri, cazzi loro.

martedì 27 ottobre 2009

La Procura s’inventa la legge a due velocità


Il bollettino della sconfitta è un foglio apparentemente insignificante, uno dei tanti moduli prodotti ogni giorno dalla burocrazia italiana. Eppure è con queste poche righe prestampate che la Procura della Repubblica di Milano prende atto di una realtà che ormai è sotto gli occhi di tutti: la sua incapacità di dare risposta alla richiesta di giustizia che viene dai milanesi. Denunce e querele presentate ormai da quasi un anno giacciono abbandonate in un ufficio al pianterreno senza che nessuno si sia mai occupato di indagare. Anzi, nessuno ha mai compiuto nemmeno l'atto più elementare, quello che dà il via alla azione della magistratura: l’iscrizione della denuncia nel registro delle notizie di reato, il gesto che trasforma la denuncia di un cittadino in un procedimento penale.
Quel gesto dovrebbe essere automatico e immediato. Invece il modulo intestato «Procura della Repubblica» dice che non è sufficiente presentare una denuncia perché ad essa venga dato il seguito previsto dalla legge. Il cittadino che - magari mesi fa, a volte un anno fa - ha sporto la sua denuncia senza che accadesse nulla, deve tornare in tribunale. E chiedere all’«Illustrissimo Procuratore della Repubblica» che la sua denuncia venga finalmente iscritta nel registro.
Ma non basta. Il cittadino deve anche specificare - in una e riga e mezzo di spazio - i motivi che lo spingono a chiedere che la giustizia faccia quello che è obbligata a fare. Il modulo, insomma, teorizza una sorta di doppio binario: da una parte le denunce che si possono considerare carta da macero, dall’altra quelle di cui il cittadino ha davvero diritto (dopo averne specificato i motivi, come si trattasse di una sua pretesa) che la giustizia prima o poi si occupi.
Il modulo non fa riferimento - come invece accade di solito - ad alcun articolo del codice di procedura penale. E non potrebbe essere diversamente, per il semplice motivo che il codice stabilisce in tutt’altro modo come dovrebbe funzionare la faccenda. All’articolo 335 («Registro delle notizie di reato») si legge che «il pubblico ministero iscrive immediatamente nell’apposito registro custodito presso l’ufficio ogni notizia di reato che gli perviene». La legge non prevede altre strade, domande, tempi, moduli, spiegazioni. «Immediatamente», dice.
Come e perché si sia arrivati a questa situazione non è facile da capire. Il sindacato punta da sempre l’indice contro le carenze di personale che di fatto renderebbero impossibile lo smaltimento del massiccio carico di lavoro dell’ufficio notizie di reato, dove sono presenti solo trenta impiegati invece dei novantasei che dovrebbero esserci. Ma la carenza di personale è un guaio storico del palazzo di giustizia milanese. Ed è difficile negare che una Procura che dieci anni fa era una macchina da guerra di straordinaria efficienza oggi appaia in affanno sul piano dell’organizzazione: che, per un ufficio-azienda con cento pubblici ministeri, centinaia di cancellieri, assistenti, agenti di polizia giudiziaria, è un piano cruciale.
Certo, si potrebbe obiettare che la grande parte delle trecentomila denunce in attesa di giustizia riguardano reati minori: furti d’auto, danneggiamenti, truffe, molestie. Ma sono molti gli avvocati che lamentano come il «tappo» creato dall’ufficio al pianterreno impedisca di ottenere giustizia anche per reati che - grandi o piccoli che siano per la legge - incidono pesantemente sulla vita del cittadino qualunque.




da il Giornale - Luca Fazzo

Nota a margine
La notizia si commenta da sola, consideriamo poi che ai tempi lunghi per l'avvio dell'azione penale o civile che sia, ci sono poi i tempi per lo svolgimento della causa o del processo (3 anni circa ), i probabili tempi per il ricorso in appello e poi per la pronuncia definitiva della Cassazione, se diciamo che una sentenza definitiva potrebbe intervenire in circa 10 anni non andiamo molto lontano dalla realtà.

mercoledì 19 novembre 2008

“NON COOPERATE ALL’UCCISIONE DI ELUANA”

SCIENZA & VITA FA APPELLO ALLE COSCIENZE DI TUTTI:
“NON COOPERATE ALL’UCCISIONE DI ELUANA”

“Ci appelliamo alle coscienze di tutti quelli che nelle prossime ore e nei prossimi giorni si avvicineranno a Eluana Englaro, perché non cooperino alla sua uccisione”. E’ l'appello che l’Associazione Scienza & Vita rivolge a tutti, “al papà Beppino come agli altri familiari, a tutti gli amici ma anche ai medici, ai rappresentanti delle istituzioni dello Stato e delle Regioni. Un invito pressante rivolto a quanti possa essere richiesto di cooperare, a vario titolo, a porre fine all’esistenza terrena di Eluana. Una giovane donna da anni in stato vegetativo persistente, non dunque una malata terminale, che versa in un gravissimo stato di disabilità che necessita solo di un’assistenza elementare nell’idratazione e nell’alimentazione”.
“Non è ancora troppo tardi per fermarsi – ammonisce Scienza & Vita –. Non c’è alcun obbligo di dare attuazione alla sentenza di condanna emanata dal giudice. E’ ancora possibile rispondere al comandamento dell’amore che ama la vita, qualunque vita, anche la più fragile e tormentata. E assecondare quella voce che da secoli viene dal profondo della coscienza di ogni uomo e di ogni donna e che risuona come un comando: non uccidere”.

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