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venerdì 22 luglio 2016

L'integrazione è un concetto ideologico

    Integrazione è una parola dalla definizione complessa. E’ entrata di prepotenza nel nostro lessico quotidiano per dare sostanza alla strategia sociale del fenomeno immigratorio.
    Una volta s’usava per cose diverse per lo più per definire questioni di tipo politico-istituzionale, finanziario-commerciale, scientifico-matematico ovvero sindacale-assistenziale.
    L’uso preponderante della parola che se ne fa oggi, intesa come sistema d’incorporazione di culture, di etnie e di sensibilità etico-religiose e culturali diverse, però, è il meno appropriato.
    L’integrazione, infatti, richiede il progressivo sistema di adeguamento tra due parti che si propongono di iniziare un definitivo percorso comune. L’ingrediente principale per l’integrazione, pertanto, non può che essere l’accettazione di questo processo. Altrimenti sarebbe come fare il pane senza la farina. Se non c’è la volontà da una parte e dall’altra, o dalle due parti insieme, sarebbe un processo inutile, servirebbe solo a consumare risorse ed energie. Sarebbe come pretendere che i differenti poli magnetici di due calamite si uniscano tra loro. Non succederà mai: si respingeranno sempre.
    E non succederà mai che due culture molto diverse, ciascuna portatrice di una propria civiltà, storicamente in conflitto tra loro, da una parte persino con radicati sentimenti revanscisti, decidano di mettere una pietra sopra ai conflitti passati, agli usi, ai costumi, al sistema stesso di vita sociale, per integrare la propria storia futura con quella che ne contraddice quella passata.
    Non possiamo violentare ciò che siamo solo per adempiere ad una pretesa ideologica che si predispone di compensare le diversità, quindi la natura di ciò che siamo, per costruire un futuro diverso in cui nessuno sia più quello che è, e tutti siano nella stessa maniera predisposti e fungibili a tutto.
    Non scherziamo. Ci hanno sempre detto che essere se stessi è un valore. E noi vogliamo essere autonomi, laici, liberi e democratici. Vogliamo i diritti, l’uguaglianza dei sessi, la libertà di scegliere, di vestirci come vogliamo e la libertà di credere o non credere.
    L’identità non è una cosa che ci facciamo da soli come una marionetta di legno in un laboratorio di falegnameria. L’identità è proprio ciò che siamo per natura, per legami, per origine, per tradizioni, per cultura.
    Il laboratorio del multiculturalismo è fallito perché l’integrazione non è come una massa di farina che s’impasta con acqua e lievito e cresce. Dove ci hanno provato non funziona. Le seconde, le terze, le quarte generazioni, com’è tragicamente emerso in Francia e in Belgio, come sta succedendo negli USA, ripropongono le difficoltà di convivenza e rilanciano i fenomeni violenti dell’integralismo etico-religioso delle culture di appartenenza. Succede anche quando si cresce, si studia e si lavora in un contesto del tutto diverso.
    Le stesse difficoltà nella convivenza civile si avvertono tra gli immigrati di etnie diverse. Non si integrano neanche tra loro pur avendo gli stessi problemi e incontrando le stesse difficoltà.
    Si parla, infine, erroneamente di xenofobia e di razzismo degli italiani che temono l’estendersi del fenomeno migratorio, ma non si parla del razzismo di chi è intollerante verso altre etnie e che odiano la nostra civiltà.
    Stiamo sbagliando tutto. L’integrazione è un falso concetto come quello dell’islam moderato: non esiste.
    Non può esistere.
Vito Schepisi

giovedì 8 gennaio 2015

L' ISLAM CHE UCCIDE IN UN'EUROPA SENZA RADICI


Oggi è una giornata triste per me. 
Nonostante quello che dicono i soliti buonisti accoglienti, noi siamo ormai certi che i terroristi ce li abbiamo in casa siano essi islamici o italiani votati alla causa (questi ultimi sono almeno 50 e per fare una strage ne bastano due)...Per un'Europa come la nostra, senza alcuna unità sostanziale se non quella monetaria (con le conseguenze che vediamo ogni giorno) e totalmente sprovveduta, sarà difficilmente in grado di reagire.come dovrebbe e dove dovrebbe per fermarli.

In passato sono stati molti gli appelli di grandi personaggi affinchè l'Unione Europea riscoprisse le sue radici cristiane e ne facesse tesoro, riscoprisse i valori che l'anno fatta nascere e che hanno animato per secoli i popoli che la compongono,. tutti questi appelli sono stati inascoltati in nome di una  libertà apparente che in realtà era solo disinteresse per i veri problemi dei cittadini  a favore di interessi marcati per il Dio soldo. 

In questo terreno arido e squallido, in una assoluta mancanza di valori riconosciuti,  l'islamismo integralista ha trovato terreno fertile e ha reclutato senza difficoltà  giovani inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, italiani magari islamici di seconda generazione oramai nazionalizzati europei, o anche non islamici, giovani che cercavano un ideale giusto o sbagliato che fosse, giovani che volevano battersi per qualche cosa in cui credevano davvero.Questi giovani sono pronti a colpire il vecchio continente con atti terroristici spinti alle estreme conseguenze anche per loro.

Noi persone normali, cittadini europei con gli occhi bene aperti sul mondo, chi dobbiamo ringraziare per questo stato di cose? Nessuno è privo di responsabilità, nemmeno noi che abbiamo avuto la sola colpa di votare qualcuno che ci rappresentasse, perchè è proprio vero che chi vota persone corrotte ne diventa complice. Certo le nostre colpe non sono paragonabili a quelle, gravissime, dei governanti assolutamente inadeguati che si occupano solo di bilanci e di conti da far quadrare e giocano con l'economia dei diversi Paesi incuranti dei danni che provocano alla gente e ai giovani lasciati allo sbando senza alcuna speranza per il futuro.

Lattentato di Parigi, l'ultimo di tanti in ordine di tempo, potrebbe forse segnare una sorta di riscossa, un recupero di consapevolezza di quello che vorremmo diventasse l'Europa. Se ciò non dovesse accadere prevedo conseguenze preoccupanti per la nostra libertà, e per la sopravvivenza del vecchio continente.

lunedì 12 agosto 2013

Ma quali fratelli islamici?

Papa Francesco ieri in Piazza San Pietro si è rivolto agli islamici chiamandoli fratelli. Ovviamente il Papa fa il Papa. ma questo pontefice tanto amato, pare aver almeno in tre occasioni deluso parte dei suoi sostenitori, almeno quelli che possiedono una fede non priva di criticità, mi riferisco alla sua visita a Lampedusa, alla stretta di mano alla Presidente del Brasile, la compagna Dilma Rousseff erede di Lula, e ora alla faccenda dell'Islam.
Essere cristiano non significa assolutamente dover accettare tutto e il contrario di tutto, ma avere anche uno spiccato senso della giustizia e della verità. Proprio per amore di giustizia e verità direi che l'Islam attualmente non può e non deve essere chiamato Fratello, il percorso per  poterlo essere passa attraverso la sua volontà di esserlo e le azioni conseguenti per esserlo in un mondo che rifiuta la violenza.
Il Cristianesimo ha annoverato nei tempi che furono  orrendi crimini in nome del suo credo, ma ora il fatto  di  "siamo tutti fratelli" si basa sull'amore per l' individuo e non sul potere della Chiesa, per l'Islam non è così, gli islamici per la loro religione uccidono, stuprano, sgozzano donne e bambini  e questo è inaccettabile, soprattutto se pretendono di farlo nel nostro Paese contravvenendo alle nostre leggi.
Sento spesso dire che il pericolo sono gli estremisti, bene...ma quanti sono gli estremisti islamici? Pochi, molto pochi, solo una piccola frazione di tutto l’Islam: ma questa riposta che pare essere molto tranquillizzante,  in realtà non deve trarre in inganno perché contiene una insidia che spesso passa inosservata.
Se ci chiediamo quanti erano i nazisti negli anni 20 ne vediamo pochissimi, si parla del putch della birreria come di un fatto quasi ridicolo. E quanti erano i marxisti in Russia nel 17 ? . Ben pochi in Russia conoscevano non dico il pensiero ma anche solo il nome di Marx. Eppure in pochi anni nazismo e comunismo si affermarono a livello di massa, forse come nessun altro movimento prima. Anche ora vi sono movimenti neo nazisti e tanti comunisti (diciamo neo leninisti): tuttavia nessuno pensa che ci potranno essere a breve termine regimi nazisti e comunisti (di tipo sovietico). Occorre tener conto infatti delle condizioni storiche nella possibilità o meno di affermazioni di certi movimenti e non solo il numero di quelli che vi aderiscono in un certo momento
Allora la domanda cruciale è se attualmente nel mondo islamico vi sono condizioni di carattere sia culturali psicologiche che economiche politiche sociali che rendano possibile una vasta affermazione dell’islam estremista, la risposta purtroppo non è tranquillizzante.

Riporto le riflessioni del prof.Giovanni De Sio Cesari
Vediamo un po' di avvenimenti storici recenti .
Nel 1979 l’Iran appariva un paese sulla via della modernizzazione e del laicismo, stabile e sicuro alleato dell’Occidente sotto la guida che sembrava saldissima dello Scia mentre l’ayatollah Komeini era sconosciuto ( in Occidente ) e anche in Iran nessuno poteva mai immaginare che avrebbe preso il posto dello scia. Eppure bastarono pochi mesi di rivolta popolare contro il malgoverno dello Scia ( salutata in Occidente come una di indirizzo progressista e di sinistra) perchè tutto il popolo iraniano, con una impressionante movimento di massa che ha pochi precedenti nella storia aderisse profondamente al credo Komeinisti: una intera generazione iraniana, qualche anno dopo si sacrificò con entusiastico zelo religioso nella guerra in Iraq lasciando 700 .000 mila inutili morti.
In Algeria, europeizzante, laica imbevuta di cultura e lingua francese il movimento integralista stava per avere una vittoria elettorale del tutto imprevista alle autorità che sospesero le lezioni scatenando una lunga terribile guerra civile costata centinaia di migliaia di vittime , il numero esatto non si saprà mai.
In Palestina il movimento palestinese ebbe fino agli anni ottanta un indirizzo decisamente laico, il più laico del Medio Oriente vicino alla sinistra europea: ma di colpo movimenti integralisti come Hamas, Jihad, Hezbollah hanno conquistato la scena politica tingendo la questione palestinese di una colore e di un fervore religioso dapprima del tutto sconosciuto.
E poi guardiamo anche alla Cecenia: la rivolta contro i Russi non aveva niente a che fare con il fatto religioso, viene ripetuto anche ora dai Ceceni: pero è anche innegabile che una guerra da nazionale (e di interesse petrolifero) ha avuto uno sbocco di guerra religiosa: i Ceceni sono accorsi in massa sotto le bandiere di al Qaeda. Si veda poi anche nella vicina Bosnia: scontro etnico, la questione religiosa pareva esclusa in un paese laico dopo tanti di comunismo che professava l’ateismo di stato:eppure anche in Bosnia accorsero da ogni parte islamici pronti a morire nel Jihad : la Bosnia è stata anche un punto di forza dello sviluppo del terrorismo.
E cosa accadde quando ci fu l’attacco all’ America.
Quando le torri di New York caddero una ondata di entusiasmo religioso attraversò il mondo mussulmano: ecco Allah ha permesso che solo 17 shaid abbiano inferto un tale colpo all'america , a che le sono serviti i suoi missili e suoi apparati di sicurezza, cosa possono contro la volontà di Allah l'onnipotente? Le t-shirt con le immagini di bin laden andavano a ruba da Timor al Marocco , mussulmani nati e cresciuti in Europa correvano ad arruolarsi in al qaeda, Pakistani in frotte attraversava la frontiera per unirsi ai talebani e in tutto il Pakistan folle immense scendevano in piazza ed erano fronteggiate da soldati con le armi in pugno e nessuno sapeva che sarebbe successo .
Solo i successi rapidi degli americani e degli alleati portarono il mondo islamico a considerare con maggiore obbiettività la realtà
Ci pare quindi suffragata dalla esperienza che il piccolo numero di integralisti trova condizioni oggettive tali che in certi casi possano guadagnare le masse in modo analogo a quanto avvenne in Germani o in Russia per i nazisti o per i comunisti.
Bisogna infatti tener presente fattori che ai quali brevemente accenniano

CONTESTI
CONTESTO RELIGIOSO: la fede mussulmana è costituita essenzialmente da una serie di prescrizioni dettagliate e precise che si ritiene essere state consegnate direttamente e nella forma riportata al profeta Muhammed e che vengono apprese a memoria e in lingua araba perchè quella è la lingua usata da Allah. Per sua natura quindi è piuttosto difficile pensare che tali norme possano esser reinterpretate secondo una visione moderna, fra l’altro estranea alla tradizione islamica e che proviene invece proprio dal mondo degli infedeli. Se Allah ha stabilito il posto della donna quello è il suo posto: se seguendo gli infedeli vogliamo che il suo ruolo sia modificato andiamo contro una delle norme divina e non si può mettere in dubbio una sola delle norme divine senza mettere in dubbio la fede nel suo complesso. In base a tale ragionamento è facile tacciare di apostasia e di idolatria i regimi politici che si ispirano all’Occidente.

CAUSE CULTURALI ogni civiltà ritiene di essere la migliore, vi è sempre una naturale autoreferenzialità : avviene pero che l’Islam negli ultimi secoli si sia come ripiegato su se stesso ed è stato superato non solo dagli europei, ma anche dalle altre grandi civiltà soprattutto dalla Cina. Tutto ciò porta a una profondo senso di frustrazione e umiliazione e quindi a una forte spinta nazionalistica: la decadenza del mondo islamico può essere facilmente attribuita non a carenze proprie ma all’influsso pernicioso degli Occidentali e quindi la illusione che se le usanze straniere degli infedeli venissero respinte si potrebbe tornare allo splendore di Harun el Rascid o di Solimano il magnifico.

CONTESTO POLITICO: il tessuto politico appare molto instabile: da una parte vi sono conflitti interni fra etnie e gruppi religiosi e dall’altra il potere politico è gestitola da elittes politiche più o meno corrotte e comunque con scarsa legittimazione popolare. In realtà figure come Saddam Hussein non sono la eccezione ma piuttosto la regola. Ed è quindi abbastanza facile chiamare alla rivolta contro la corruzione dei ceti dirigenti o intraprendere lotte contro questo o quel gruppo In tale contesto dare una colorazione religiosa è cosa molto facile e proficua.

CONTESTO ECONOMICO SOCIALE: in alcuni paesi vi sono notevoli proventi derivanti dal petrolio: in realtà pero essi non sono stati usati per lo sviluppo economico generale ma ad esclusivo vantaggio di gruppi e sperperati per armamenti ,spese folli di rappresentaza (palazzi di Saddam, panfili da favola). La povertà generale contrapposta alla immenso ricchezza dei pochi naturalmente fornisce una miscela esplosiva particolarmente atta a a incendiasi ai richiami etici e religiosi.

CONCLUSIONE
Con questo non si vuol affermare che necessariamente l’estremismo islamico si diffonderà. Anzi riteniamo che la cosa sia molto improbabile perché appare abbastanza chiaro che esso non può risolvere i problemi che vuole affrontare e che esso infatti in realtà ha fallito dovunque si è manifestato .
Ma non bisogna sottovalutare l’immenso potere di suggestione soprattutto emotivo e considerarlo quindi un fenomeno marginale interessante un limitato numero di seguaci: sarebbe una sottovalutazione estremamente pericolosa


PS, - è stata diffusa poco minuti fa la notizia dell'uccisione di padre Dall'Oglio, la notizia mi rattrista molto.

venerdì 5 luglio 2013

Mondo arabo. Rivoluzione e rivoluzioni. Siamo forse giunti alla resa dei conti?

Il generale malessere del mondo, la crisi presente in molti paesi europei, la situazione di stallo segnata dai paesi arabi nei quali troppo presto e con scarsa cognizione di causa si era parlato di “primavera”, l’incerto e contraddittorio ritorno di alcune potenze occidentali (segnatamente la Francia) a strumentalizzare i movimenti islamisti, il disagio registrato da quelle che potrebbero venir presentate come “rivolte antifondamentaliste” in Egitto e in Turchia, hanno ricondotto d’attualità presso i media una domanda per molti versi drammatica: non c’è forse ormai bisogno di una rivoluzione per ridefinire gli immensi problemi che ormai si stanno intrecciando fra loro e magari azzerarli e ricominciare? Ma è possibile tale rivoluzione? Ed è possibile che essa si verifichi sul serio in qualche parte del mondo, oppure la realtà globalizzata è tale ch’essa stessa, per riuscire, dovrebbe essere globale? Proviamo, per avviare una risposta storica a tale questione, a precisare alcuni punti.
Il concetto di “rivoluzione” è, in origine, astronomico: indica il giro completo che nel sistema solare i pianeti compiono attorno al sole per tornare al punto di partenza. Ma la parola, che per noi è ormai sinonimo di totale e sconvolgente mutamento di assetto sociopolitico, per giunta di solito rapido e violento, fu impiegata nella sua accezione attuale per la prima volta nell’Inghilterra del Seicento, col significato di un movimento che, attraverso una pratica di cambiamento radicale della situazione politica, mirava a riacquistare e a imporre di nuovo sulla terra e nella storia l’originaria condizione umana di libertà e di uguaglianza, quindi a compiere l’opera divina di Redenzione. Tale la natura del concetto di “rivoluzione” in quel movimento che alla fine del Seicento condusse al trono Guglielmo di Orange e che fu la glorious revolution.

Un centinaio di anni dopo, nella Parigi dei philosophes e dei giacobini, tutto era cambiato. Era già stato il cristianesimo a sostituire l’idea del tempo lineare, con un principio e una fine, a quella ch’era stata la tenace idea tradizionale del tempo circolare e dell’Eterno Ritorno, i cristiani ne avevano sostituita un’altra che aveva come perno l’incarnazione e come estremi la Creazione e la Fine del Mondo: tuttavia l’anno liturgico e l’anno lavorativo agrario, entrambi radicati nel ritmo circolare delle stagioni, aveva a lungo mantenuta viva nei popoli l’idea del tempo ciclico, magari corrotta dal pessimismo esiodeo e lucreziano in un susseguirsi spiraliforme di ere l’una peggiore dell’altra (d’oro, d’argento, di bronzo, di ferro), giù fino alla ferrea proles, il kali-yuga dei Veda.
Ma con la Rivoluzione si aprì un’età nuova: e, come il Carducci fa dire al Goethe all’indomani della battaglia di Valmy, una “novella istoria”. La rivoluzione inglese, per quanto giunta al termine di una lunga gestazione durante la quale si era addirittura potuto decapitare un re, nel ridefinire i patti tra il sovrano e il popolo con la nuova casa d’Orange rafforzò, rinnovandola, la monarchia. La rivoluzione, dopo i suoi primi incerti e contraddittorii inizi, al contrario non solo rovesciò il trono e l’altare e decapitò la coppia regale, ma sostituì al principio della fedeltà incrollabile alla corona e alla dinastia quello della fedeltà a qualcosa di vecchio quanto al nome, ma di nuovo quanto al concetto: la nazione. Il Settecento è difatti non solo il secolo dell’invenzione della tradizione, come l’ha definita Eric Hobsbawm, bensì anche quello dell’invenzione della nazione come realtà etno-socio-linguistico-culturale non tanto nuova in sé – di nationes già si parlava nell’impero romano e come gentes o nationes si qualificavano nelle traduzioni latine della Bibbia i popoli non-ebrei – quanto nuova nella misura in cui, fra i suoi diritti primari, le si rivendicava quello di costruire uno stato di sua esclusiva pertinenza, uno “stato nazionale”.
La Rivoluzione francese sta quindi all’inizio di un complesso e polimorfo movimento dinamico che anima e informa di sé i sue secoli presenti: afferma solennemente i principii di libertà individuale ma al tempo stesso di eguaglianza tra individui e tra qualunque tipo di forma societaria, incurante delle divergenti dinamiche che i due princìpi in realtà avviavano e della paradossale loro reciproca incompatibilità se assunti in senso assoluto, dal momento che la libertà di ciascuno uccide fatalmente l’uguaglianza, e questa non può se non affermarsi distruggendo quella. Non solo: distinguendo una liberta di (di parola, di pensiero, di espressione, di confessione religiosa, di proprietà) da una libertà da (dalla dogmatica, dall’autoritarismo, dalla tirannia, dalla fame, dalla malattia, dalla paura), si traccia privilegiando quest’ultima la strada verso l’uguaglianza non solo giuridica, bensì anche economica e sociale. In questo senso però la rivoluzione francese, sfociando nelle soluzioni “borghesi” e “liberali” di Termidoro e dell’autoritarismo militarista napoleonico, resta “incompiuta” e in parte nega se stessa – da qui le tesi di chi vorrebbe far cominciare la Restaurazione non già dalla caduta dell’imperatore dei francesi, bensì al contrario proprio dal consolato e poi dall’impero -: liberalismo e socialismo, in effetti, risultano strettamente collegati e in qualche modo complementari, o quanto meno questo il naturale esito sotto forma di reazione rispetto a quello.
Durante il XIX secolo e poi all’inizio del XX, abbiamo assistito alla corsa all’egemonia tra le potenze europee due delle quali (Francia e Inghilterra) avevano imboccato senza sostanziali esitazioni la strada capitalistica e il sistema democratico rappresentativo liberale, mentre altre due (Prussia-Germania e Austria-Ungheria) mostravano di voler accompagnare allo sviluppo capitalistico e liberistico un sistema politico fondato su forme di rappresentanza a carattere sostanzialmente consultivo e altre due ancora (impero czarista russo e impero sultaniale ottomano) apparivano intente ad affrontare i problemi della multinazionalità/pluriculturalità e della modernizzazione, per il secondo dei quali necessitavano in vari e differenti modi del sostegno finanziario, imprenditoriale e tecnologico delle potenze occidentali, in cambio accettando con certe limitazioni la loro alleanza (la Russia) o la loro penetrazione egemonica (l’impero ottomano). Frattanto, in Asia, altre compagini imperiali si stavano ponendo il problema della modernizzazione-occidentalizzazione (il Giappone, la Cina, la Persia), mentre non insensibili al fascino dell’occidente e alle idee nazionali- per loro del tutto nuove – apparivano i paesi arabi. Queste differenti e contrastanti prospettive determinavano delle fatali rotte di scontro: tra la Russia e l’Inghilterra per l’egemonia sull’Asia centrale (il Great Game); tra la Russia e la Turchia ottomana per quella sul Mar Nero e sugli Stretti (Bosforo-Mar di Marmara) in quanto la Russia czarista intendeva affacciarsi sul Mediterraneo; ancora tra la Russia e l’Austro-Ungheria per la spartizione dell’area balcanica nella quale la potenza sultaniale stava sbriciolandosi (e in quell’area la Russia intendeva non solo raggiungere anche là il Mediterraneo, ma anche proporsi come stato-guida del mondo slavo e della compagine religiosa ortodossa); tra l’Inghilterra e la Turchia in quanto Sua maestà Britannica, una volta aggiunta alle sue corone quella imperiale d’India, aveva bisogno di egemonizzare il Vicino Oriente per mantenersi libero il passaggio del Canale di Suez e assicurarsi che mai sarebbero sorte potenze sue concorrenti sulle coste settentrionali e occidentali dell’Oceano Indiano. La detenzione e il controllo sia di Gibilterra, sia di Suez, sia della fortezza di Malta, faceva intanto sì che l’Inghilterra potesse considerare il Mediterraneo un “lago britannico”: ma ciò sottintendeva la necessità di controllare in quel settore gli sviluppi navali sul piano tanto militare quanto civile e commerciale di Francia e di Spagna, e stabilire una sorta di “alleanza egemonica” con Portogallo e Italia. Infine, quando con Guglielmo II anche il capitalismo e il militarismo tedesco ebbero scelto di giocare a loro volta a fondo le carte del colonialismo africano e della corsa allo sviluppo cantieristico e nautico, quindi dell’accesso della Germania a una politica egemonica oceanica in concorrenza con l’Inghilterra, tutto sarebbe stato pronto per lo scoppio della “guerra dei Trent’anni”, quella 1914-1945, che vanno considerate congiunte in quanto la seconda rappresenta un’inevitabile prosecuzione della prima a causa degli iniqui patti di pace di Versailles alla fine di essa e dell’insorgere dei totalitarismi, che è necessario interpretare come una risposta al fallimento della gestione liberal-liberistica della “questione sociale” nata nell’Ottocento e aggravatasi nel Novecento e dell’incapacità della classe dirigente capitalistica dell’Europa occidentale di risolvere i problemi delle società di massa. A tutto ciò vanno uniti almeno tre ulteriori, decisivi fattori: primo, l’insorgere della questione petrolifera a causa degli sviluppi della tecnologia moderna e delle scoperte dei giacimenti soprattutto vicino-orientali: secondo, il progressivo affermarsi della nuova potenza statunitense con una progressiva azione egemonica sul mondo; terzo, lo sviluppo in funzione prima anticolonialistica, quindi – dopo il secondo conflitto mondiale – antineocolonialistica delle istanze di libertà e di affermazione nazionale dei nuovi paesi emersi dallo scomporsi del sistema coloniale.
Oggi, siamo pervenuti a una fase critica del cosiddetto processo di globalizzazione, avviatosi nei secoli XVI-XVIII con le grandi scoperte geografiche, le invenzioni, lo sviluppo scientifico e la prima “rivoluzione industriale” e giunto quindi alle ulteriori rivoluzioni – la petrolifera, la nucleare, la tecnologico-spaziale, al tecnologico-genetica, l’informatico-telematica – che hanno in pochi decenni sconvolto il panorama ecoantropologico e messo profondamente in discussione il rapporto, già del resto dinamico, tra uomo, cosmo e natura. D’altronde, il netto predominio dell’Europa e di quello che dal Settecento in poi si è autodefinito l’Occidente nei confronti del resto del mondo è stato caratterizzato dalla violenza e dallo sfruttamento colonialistici e dal drenaggio continuo delle ricchezze dei continenti extraeuropei messo in atto attraverso l’economia-mondo e il cosiddetto “scambio asimmetrico”. Nonostante segnali importanti come l’abolizione dello schiavismo (del resto coincidente con il crescente e sistematico sfruttamento dei ceti subalterni all’insegna di un’uguaglianza giuridico-formale che nascondeva profonde disuguaglianze), nessun occidentale pareva curarsi – al di là delle denunzie di alcuni spiriti eletti – che le premesse eticosociali delle grandi rivoluzioni settenovecentesche, con i loro valori “universali”, erano tutte disattese dalla pratica della dominazione coloniale. Contraccolpi come il diffondersi del socialismo in Asia, Africa e America latina durante la seconda metà del Novecento e l’insorgere poi del fondamentalismo musulmano, radicato nella frustrazione e nella delusione del mondo islamico nei confronti delle mancate promesse e degli inganni, erano del tutto prevedibili e sono stati storicamente parlando ovvi e legittimi. Anche se e nella misura in cui non hanno conseguito sempre e del tutto gli scopi che si erano prefissi. Al riguardo, si è obbligati a segnalare con energia un grossolano e gravissimo inganno che alcuni governi e alcuni media hanno cercato di perpetrare ai nostri danni a proposito dei movimenti musulmani cosiddetti “fondamentalisti”, ora elogiati come “combattenti della libertà” (dall’Afghanistan del tempo della guerra di liberazione antisovietica fino alle vicende del Kosovo e, più di recente, a proposito della Libia e della Siria), ora implacabilmente demonizzati com’è accaduto all’indomani dell’11 settembre 2001, una tragedia il carattere della quale resta ancora nell’ombra – nonostante la trionfalistica conclusione di troppe fasulle inchieste – e che è stata cinicamente strumentalizzata per aggredire l’Afghanistan nel 2001 e l’Iraq nel 2003, scatenando disordini, guerre civili e forme d’ingovernabilità ormai cronicizzatesi. Quelle aggressioni hanno prodotto anche autentici mostri sotto il profilo del diritto internazionale, come il carcere di Abu Ghraib dove si torturavano orribilmente i detenuti e quello di Guantanamo che continua a sussistere nonostante la sua evidente illegalità della quale è responsabile il governo degli Stati Uniti d’America. E si è altresì costretti a denunziare l’illusione e la truffa delle cosiddette “primavere arabe”, un’invenzione mediatica escogitata per giustificare in qualche modo dinanzi all’opinione pubblica mondiale la cacciata dalla Tunisia e dall’Egitto di due dittatori feroci e corrotti, entrambi amicissimi dei governi occidentali, ed elaborata in modo da mascherare la feroce repressione che alcuni governi arabi sunniti tanto religiosamente esclusivisti quanto politicamente filoccidentali (l’Arabia Saudita e gli emirati del Qatar, del Bahrein, dell’Oman) mettevano in atto per scatenare una durissima persecuzione contro i loro stessi sudditi di confessione sciita, esportando poi la fitna (guerra civile nei paesi musulmani) in direzione della Libia prima, della Siria poi, e nelle intenzioni forse perfino verso l’Iran. Ai giorni d’oggi, gli stessi governi islamistici sunniti moderati, come Turchia ed Egitto, stanno subendo nei loro paesi il contrattacco di forze che all’esterno i media presentano come “laiche”, mentre il fatto che lo stesso governo israeliano si sia dimostrato come tutt’altro che entusiasta dinanzi alla prospettiva di una vittoria delle forze ribelli in Siria (temendo non ingiustificatamente che esse una volta al potere riaprirebbero la questione del Golan, che il governo assadista di Damasco si è nella sostanza rassegnato a lasciare nelle mani d’Israele) ha preso di contropiede quegli occidentali che si erano dimostrati più nethanyahunisti di Nethanyahu, quali gli impagabili Bernard-Hénri Lévi e Magdi Allam.

Il quadro è quindi complesso, ma siamo quindi giunti forse adesso alla resa dei conti. Se per rivoluzione la Modernità ci ha abituati a intendere un radicale e profondo mutamento negli equilibri non solo giuridici, civili, economici e sociali, ma anche nelle prospettive etiche e addirittura esistenziali, possiamo dire che dopo il blocco rappresentato dalle quattro grandi rivoluzioni sociopolitiche dei secolo XVIII-XX (l’americana, la francese, la sovietica, la cinese) noi siamo oggi chiamati ad affrontare una nuova rivoluzione di portata epocale, i tratti fondamentali della quale sono due. Primo: l’eclisse per ora irreversibile delle istituzioni pubbliche, anzitutto di quelle statali, accompagnata dalla crescente importanza di lobbies multinazionali private sottratte a qualunque controllo, con la conseguente riduzione dei governi statali e delle classi politiche a “comitati d’affari” e, parallelamente, l’avanzare di un “irresistibile” (che qualcuno vorrebbe presentare come “inarrestabile”, con non disinteressato determinismo) processo di concentrazione della ricchezza, di proletarizzazione dei ceti medi e di generale impoverimento della società civile del mondo, già caratterizzata da abissali e intollerabili sperequazioni. Secondo: il passaggio – mirabilmente interpretato da Zygmunt Bauman – dalla “Modernità solida”, caratterizzata da una tensione verso l’individualismo il più possibile assoluto e dalla volontà di potenza della società occidentale, con il correlativo processo di secolarizzazione, alla “Modernità liquida” (il “Postmoderno”) nella quale questi valori e atteggiamenti sono messi in crisi, si contesta l’individualismo, rinascono forme di solidarismo, si ricercano nuovi stili qualitativi di vita, riaffiorano le esigenze religiose. Terzo: l’affacciarsi alla ribalta della storia di nuovi popoli e di nuovi stati, specie asiatici, africani e latino-americani, che contestano il carattere eurocentrico e occidentocentrico della storia così com’è stata interpretata fino ad oggi e rimettono all’Occidente il conto di un’egemonia durata mezzo millennio durante il quale i governi liberali occidentali hanno usato quegli stessi metodi che l’Occidente ha rimproverato ai totalitarismi quando essi li hanno usati all’interno della sua compagine.
La rivoluzione del futuro, quella che ci sta davanti mentre avanzano le nuove potenze del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina, cui si dovrà forse aggiungere tra non molto l’Iran), dovrà pertanto, se vorrà aver caratteristiche positive per l’intero genere umano, essere caratterizzata da due elementi: primo, una profonda ridistribuzione a livello mondiale della ricchezza, che riequilibri i rapporti internazionali e quelli interni a ciascuna compagine civile rappresentando così da sola un importante fattore di pace altrimenti inconseguibile in quanto senza giustizia sociale la pace è impensabile; secondo, una vera e propria rivoluzione sul piano dei consumi, del rapporto con l’ambiente, degli stili di vita. Questa rivoluzione potrà anche non verificarsi, oppure fallire: ma allora saremo tutti condannati.

A cura di Franco Cardin