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venerdì 23 settembre 2016

Alzheimer, le famiglie italiane chiedono aiuto alle istituzioni


In tutto il mondo oggi si parla di Alzheimer, la ricerca ha fatto progressi, ma in Italia le famiglie dei malati sono sole.



Oggi si parla di #alzheimer in tutto il mondo, lo si fa anche in Italia con molte iniziative, ma la realtà di questa terribile malattia degenerativa nel nostro Paese è drammatica, poiché il carico fisico e psichico che la cura di un malatocomporta è totalmente affidato alla buonavolontà delle famiglie.
I parenti dei malati sono abbandonati a se stessi, manca personale specializzato, manca l'assistenza domiciliare, manca unpronto intervento Alzheimer che possa far fronte alle mille prove che ogni giorno la famiglia è chiamata ad affrontare (allucinazioni, insonnia,  fuga, difficoltà ad ingerire, incontinenza, difficoltà di parola, inappetenza cronica ecc.), per non parlare  poi delle strutture che spesso sono veri e propri lager.

Una realtà drammatica

Eppure questo morbo è in forte espansione in tutto il mondo e naturalmente anche in Italia: attualmente i nostri malati sono 1 milione e 200 mila, si prevede che nei prossimi 20 anni una famiglia italiana su 4 avrà un familiare malato di Alzheimer. I costi della malattia sono enormi: un malato costa circa 22mila euro/anno per ogni famiglia e spesso i malati non vengono 

giovedì 20 novembre 2014

Eutanasia nascosta? molti anziani la cercano ogni giorno per la solitudine


Si comincia con il ridurre quantità e qualità del cibo, chiudere o anche solo allentare i rubinetti dell'acqua, sospendere farmaci indispensabili. E la morte arriva, come un crudele abbandono da parte di chi si prende cura di te.
«È un fenomeno che esiste e la società è chiamata a farsi carico di questa nuova realtà, che purtroppo si va diffondendo» spiega il professor Giovanni Meola, ordinario di neurologia alla Statale, primario di neurologia al Policlinico San Donato, presidente della sezione milanese dell'Associazione medici cattolici. Aggiunge: «Per noi che viviamo ai confini con la Svizzera, dove ci sono cliniche in cui prevale tutt'altra mentalità, l'influenza culturale è potente».
L'Amci si riunirà sabato a Milano presso le Suore di Maria bambina per dibattere questo tema, sempre più di attualità. Il titolo del convegno è «I bisogni dell'anziano» e alla giornata di studi parteciperanno esperti del calibro dei professori Alfredo Anzani, del San Raffaele, e Carlo Vergani, del Policlinico. Anche Papa Francesco di recente ha parlato di «falsa compassione», figlia della «cultura dello scarto», che si spinge all'eutanasia nascosta in famiglia e negli ospedali. Attenzione - dicono i medici dell'Amci -, nel giro di pochi anni in Lombardia ci troveremo 3-400mila anziani da curare: «Ma non sono malati, sono anziani. Essere anziani non è una malattia».
Eppure, ammette lo stesso professor Meola, spesso il carico di solitudine è pesante, così come le difficoltà per le famiglie, anche perché il modello di cura dell'anziano è antiquato e scorretto: «Ma sono contrario all'eutanasia nascosta: noi dobbiamo affrontare il problema e non eliminarlo. E la soluzione è in un nuovo approccio alla cura, più moderno e al passo con la scienza». Per essere concreti? «Un bambino, un giovane, un adulto, di solito ha una sola patologia. Invece con gli anziani dobbiamo approfondire la polipatologia: i danni degli anziani coinvolgono più organi. Serve un approccio multifattoriale, più moderno, ma anche affascinante e ricco di prospettive per tutti, perché prevede una visione olistica: siamo un tutt'uno dal punto di vista fisico, psicologico, spirituale».
Mandarli tutti da uno psicologo? Il professor Meola nicchia: «Non hanno tutti bisogno di uno psicologo, ma di vivere in un ambiente sereno e non sentirsi un rifiuto. Spesso è sufficiente una corretta alimentazione, ricca di proteine, attività fisica e una terapia cognitiva. Non grandi cose: uno stimolo della memoria che possono fare conoscenti e amici. Parole crociate, libri, giochi, ipad, internet, corsi dove vengono stimolati, sono medicine molto efficaci». E poi il dialogo, il rispetto e l'ascolto da riscoprire: «Ritrovare il gusto di stare con un anziano. Soprattutto se saggio, ci può aiutare, dare consigli, essere un faro di saggezza». Insomma, amare i nostri vecchi.
La rivoluzione riguarda le famiglie ma anche le strutture sanitarie: «Siamo in presenza di un popolo di vecchi e dobbiamo entrare nell'ottica di un'assistenza continua. Bisogna ptenziare i medici di base: la maggior parte dei malati finisce al pronto soccorso e potrebbe essere gestito dal medico. E il medico di base deve essere educato a dare il giusto valore alle polipatologie e incentivare le visite a domicilio». Infine, ma non meno importante: «Non ghettizzare, se possibile, in case di riposo: lasciarli nei loro contesti familiari. Se si entra nell'ottica che le famiglie hanno un aiuto economico da Comuni e Stato, può essere una strada più semplice».
da un articolo de IL GIORNALE

sabato 13 luglio 2013

Figli non amati



A MIA MADRE
Parlami madre
raccontami
delle tue rughe
testimoni di fatiche
e di passi pesanti.
Siedimi accanto
e dimmi
dei tuoi sogni
di bambina
consumati
tra le pieghe
di un tempo ostile.
Poggia lievemente
la tua anima
tra le mie mani
perchè io possa
adornarla
di baci e carezze
e restituirti la vita
che quel giorno
dal tuo grembo
mi donasti.
Respira insieme a me
il mio perdono
per quelle tue carezze
non date.
...Quel dolore
ora dorme acquietato
dentro il mio cuore
libero.

NdM


Quanti di voi potrebbero ammettere di non essere stati amati da un padre, da una madre o da entrambi i genitori? Probabilmente nessuno, ma ognuno di voi potrebbe magari raccontare un episodio della propria infanzia in cui si è sentito solo o ha sentito la mancanza dei propri genitori, gli riuscirà così meno dolorosa la sua mancanza di amore.
Le persone non amate nell'infanzia riportano grandissimi danni psicologici, una sorta di insicurezza che li accompagna per tutta la vita.
La liberazione da questo stato di cose si ottiene solo con l'acquisire la consapevolezza di non essere stati amati, nell'ammetterlo pienamente e nel riuscire a perdonare chi vi ha fatto soffrire.
La struggente poesia che riporto sopra è stata scritta da una persona che ha superato il suo disagio.

mercoledì 30 maggio 2012

La forza della vita nella sofferenza


“A volte arriva in modo silenzioso e subdolo, come la muffa sul muro, oppure irrompe nella quiete di casa nostra come un bandito, con prepotenza: arriva il dolore. È la sofferenza causata dal distacco di persone care, di situazioni di vita disperate, dalla difficoltà di vivere in pace con noi stessi o con gli altri oppure è causato dalla solitudine o dalla malattia sia essa del corpo o dello spirito …” (Dal messaggio dei Vescovi italiani per la 31a giornata per la vita).
Leggo questo messaggio il giorno dopo aver visitato un malato terminale: mi sono sentito fragile e miserabile di fronte alla sofferenza di quest’uomo, la mia sicurezza, la mia spavalderia si sono infrante di fronte al volto della morte. Un volto che si è presentato ai miei occhi con tutta la sua tracotanza, la sua crudezza, mi sono sentito impotente, deluso, senza desiderio, privo di speranza. Quel Dio che io cerco, per un attimo ho pensato che fosse invenzione dell’uomo per lenire la disperazione. Ma la disperazione è il passo verso il nulla, il disperato è colui che non vede il domani è un uomo senza più legami, senza appigli, in balia delle tempesta e il vento del dolore.
In questa condizione è impossibile credere, perché il dolore ti paralizza, ti toglie il respiro e credi che la morte e meglio della vita. La disperazione si fa depressione, sfiducia in se e negli altri, rinunciando a qualsiasi sentimento. Il passo successivo è la negazione della propria identità.
Non riesco a non pensare a quell’uomo, disteso tra le braccia della morte, chiuso nella sua solitudine. Si perché dolore è spesso solitudine. Noi cristiani amiamo esorcizzare il dolore e abbiamo sostituito i crocifissi tanto cari a Teresa D’avila, Caterina da Siena, con dei crocifissi di un Cristo che non soffre, con un corpo composto, senza nemmeno una ferita, impedendoci di guardarci dentro e penetrare i sentimenti più recessi.
Quando ho provato a parlare del dolore di quest’uomo, dopo un attimo, tutti, hanno cambiato discorso. Sono consapevole che la sofferenza fa paura, ma non possiamo aggirarla, soggiogarla, infinocchiarla, prima o poi arriverà: « in modo silenzioso e subdolo, come la muffa sul muro, oppure irrompe nella quiete di casa nostra». Quindi, il dolore si deve tramutare in speranza, perché chi ha speranza crede ancora nella vita. È importante credere, è necessario credere, perché ti fa vivere e la sofferenza acquista un significato, un senso. «La sofferenza è l’unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito» (SAUL BELLOW ). Certo, il malato terminale fa paura, hai difficoltà a guardarlo negli occhi, Giobbe lo descrive in maniera drastica: «a mia moglie ripugna il mio alito, faccio schifo ai figli del mio ventre» (19,17). È disperazione ma anche speranza, è tenebra ma anche luce, è distruzione ma anche purificazione. La sofferenza è anche trasfigurazione del corpo e dello spirito: «nulla di più fiele del soffrire, nulla di più miele dell’aver sofferto; nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla di fronte a Dio abbellisce l’anima più dell’aver sofferto» (Meister Eckhart). La sofferenza ci da anche la forza che non immaginavamo di avere. Mai come nel dolore ci si accorge di non avere un corpo, ma di essere un corpo che è segno di una realtà più profonda. Un corpo da amare, rispettare, divinizzare.
Porterei quel corpo morente di quell’uomo all’ingresso di ogni scuola, di ogni ufficio, di ogni Chiesa, nelle riunioni dei grandi della Terra, nei Concili ecumenici, nelle riunioni parrocchiali e nelle riunioni condominiali, perché tutti si rendessero conto che: «la mia esistenza […] è un nulla. Solo un soffio è ogni uomo che vive, come ombra è l’uomo che passa; solo un soffio che si agita»( Sal 39, 6-7). Lo porterei perché nella nostra società contemporanei regna la cultura del “divertimento a tutti i costi”. Divertimento vuol dire sposta¬re lo sguardo. Il divertimento è guardare qualcosa d'altro rispetto a quello che dovresti guardare. "Divertere" è il contrario di "converte¬re", cioè spostare lo sguardo su ciò che val la pena guardare.
Allora, ci divertiamo, dimentichiamo per non pensare, l’uomo si di-verte rispetto all'oggetto vero della sua volontà, del suo intelletto, del suo cuore, del suo desiderio e non pensa che la sofferenza rivela la nostra vera realtà, che manifesta il nostro limite di creature caduche, che fa scoprire quell’impotenza e quella solitudine insita nel cuore di ogni uomo. Davanti a quel malato mi sono chiesto: «Perché Signore? Fino a quando?» (Sal 13). Purtroppo il dolore nei credenti resta sempre uno scandalo, perché continuano a vivere nell’oscurità, invece di intravedere nella sofferenza uno spiraglio di luce.
Allora, coraggio, viviamo nella speranza di scoprire la perla più bella, penetriamo gli abissi del dolore:
«Come un pescatore di perle, o anima mia, tuffati.
Tuffati nel profondo, tuffati ancora più giù, e cerca!
Forse non troverai nulla la prima volta.
Come un pescatore di perle, o anima mia,
senza stancarti, persisti e persisti ancora,
tuffati nel profondo, sempre più giù, e cerca!»
(Swami Paramânanda ).

domenica 11 ottobre 2009

Anziani poveri e soli, abbandonati anche dalle famiglie


Il Papa: «Anziani poveri e soli, abbandonati anche dalle famiglie»

«Le nostre società devono riscoprire il posto e l'apporto di questo periodo della vita»



Benedetto XVI (Ansa)
Benedetto XVI (Ansa)
ROMA - «Tante persone anziane soffrono di molteplici povertà e di solitudine, essendo a volte anche abbandonate dalle loro famiglie». Lo ha detto papa Benedetto XVI parlando di una dei cinque nuovi santi proclamati domenica, santa Maria della Croce, che dedicò all'assistenza degli anziani buona parte della sua esistenza.
Le nostre società - ha detto il Papa - «devono riscoprire il posto e l'apporto unico di questo periodo della vita», seguendo il «faro» di santa Maria della Croce, al secolo Juanne Jugan, che si prese cura non solo delle piaghe e delle sofferenze degli anziani, ma soprattutto «della dignità dei suoi fratelli e delle sue sorelle in umanità resi vulnerabili dall'età, riconoscendo in loro la persona stessa di Cristo». Un rispetto che sarebbe dovuto da tutti, ma che santa Maria della Croce portò con gioia alle estreme conseguenze. «Questo sguardo compassionevole sulle persone anziane, attinto dalla sua profonda comunione con Dio, - ha sottolineato il pontefice - Jeanne Jugan l'ha portato nel suo servizio gioioso e disinteressato, svolto con dolcezza e umiltà di cuore, facendosi povera tra i poveri», «accettando serenamente il nascondimento e la spoliazione fino alla morte».
da: Il corriere della sera